Agenzia Rappresentanza Negoziale Pubbliche Amministrazioni

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mercoledì 8 marzo 2017

SCIOPERO SILENZIOSO DEI SENIOR DEI CENTRI ANZIANI DI MILANO

IUniScuoLa           Senior   



COMUNICATO STAMPA
IUniScuoLa Senior: DIRITTO  DEI CITTADINI  SOCI DEI CENTRI ANZIANI AD ESSERE INFORMATI DEL FONDO CASSA DISPONIBILE AL 31 dicembre 2016  O SARÀ’ SCIOPERO SILENZIOSO

 

Nota Allegata

Adempimenti contabili APS-CSRC per Anziani  

 


 

1. Al termine di ogni anno l'Associazione comunicherà al competente Settore della D.C. Politiche Sociali e Cultura della Salute ed alla Zona l'entità dell'eventuale avanzo di gestione, proponendone l'impiego per iniziative solidaristiche specificamente indicate, per migliorie agli immobili, per acquisizione di attrezzature o per accantonamenti in vista di future iniziative.

2. Il Tavolo Centrale e il Tavolo Zonale indicheranno delle linee di indirizzo per l’uso della disponibilità, favorendo la cooperazione tra i diversi Centri Socio Ricreativi Culturali al fine di programmare investimenti congiunti degli avanzi di gestione.

3. Ogni disavanzo derivante comunque dalla gestione economica della complessiva attività del Centro sarà a carico dell’Associazione


email iuniscuola@gmail.com
Tel.3883642614




lunedì 6 marzo 2017

Non un reddito dimeno


a cura del BIN Italia
Reddito di base per l’autodeterminazione

numero speciale in occasione dello sciopero generale delle donne

8marzo 2017


Indice

8 Anna Simone, Desidero, dunque sono. Appunti per una




giustizia restitutiva

12 Elisabetta Ambrosi, Donne più libere ed eguali con il reddito




di base

15 Maria Rosaria Marella, Ni Una Menos. Un reddito di




autodeterminazione contro lo sfruttamento capitalistico e

patriarcale

19 Cristina Morini, Le nostre vite valgono. Qualcosamanca nel




conto: il reddito di autodeterminazione

22 Celeste Costantino, Tra lavoro produttivo e riproduttivo, la




necessità di un reddito garantito

26 Tiziana Assunta Orru, L’uguglianza è un trappola? Lottare




per il reddito garantito per rilanciare il femminismo

30 Elena Monticelli e Giovanna Campanella, Libertà di essere




o non essere madri. Il reddito di base oltre gli strumenti di

concilazione

35 Annamaria Vitelli, Reddito minimo garantito come strumento




per diminuire le disuguaglianze di genere

37 Maria Pia Pizzolante, 8 marzo per il reddito di




autodeterminazione

40 Melania Mieli, Lottomarzo. Sciopero generale delle donne e




reddito di autodeterminazione
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Desidero, dunque sono.
Appunti per una giustizia restitutiva
di Anna Simone

E’ pensabile parlare di reddito di base senza ripensare la giustizia sociale




nel suo complesso? Il reddito di base pensato da un posizionamento di

genere è solo monetizzazione dell’esperienza nella società della prestazione

in cui viviamo o è anche un modo per rilanciare una politica del desiderio

per tutte e tutti?

Per rispondere a queste domande mi avvarrò dell’approfondimento di alcune

riflessioni rintracciabili nel testo-manifesto scritto con Federica Giardini nel

2015: La riproduzione come paradigma. Per un’economia politica femminista, rintracciabile




on line. In questo testo abbiamo individuato come dirimente il bisogno

di ripensare la teoria del valore e la giustizia sociale oggi, a partire da un

posizionamento femminista. Qui proporrò alcuni elementi di riflessione concernenti

il secondo aspetto accennato, alla luce di alcune ricerche che vado conducendo

sull’argomento da alcuni anni. Tuttavia prima di intervenire

direttamente sul dibattito relativo alla giustizia sociale nel contesto femminista

vorrei dare alcune indicazioni preliminari.

La prima è che, secondo me, non possiamo scindere i dispositivi su cui si organizza

il capitalismo contemporaneo dal portato antropologico e simbolico

che ne consegue. Intendo dire che la forma del capitalismo contemporaneo -

per convenzione possiamo chiamarla “neoliberismo”- forgia prepotentemente

le forme di vita, persino nella loro costituzione psichica, come già sostenuto da

Dardot e Laval, andando a generaremodelli di individualismo competitivo basati

sulla performatività e sulla prestazione. In altre parole agisce anche e soprattutto

all’interno della costituzione del soggetto, lo produce e lo sfrutta al

contempo, non è solo una teoria economica a cui contrapporne un’altra. L’economia

politica, che noi oggi pensiamo essere prevalentemente basata sul paradigma

della riproduzione sociale, producendo plusvalore direttamente dalle

differenze di genere, razza, classe e orientamento sessuale, nelle loro derive

identitarie, non è un’astrazione teorica,ma una pratica incarnata che include le

differenze per eliminarle nel loro essere costitutivamente eccedenti. Nel pre-
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sente, in altre parole, il sistema economico determina tutti gli altri sistemi e

non genera più alcuna cultura del limite. La seconda indicazione concerne ciò

che intendiamo per giustizia sociale. Nel femminismo della differenza italiano,

ma anche nelle teorie della giustizia di ordine socio-giuridico, il bisogno ed il

desiderio di giustizia può non coincidere affatto né con la legge, né con il diritto.

Antigone docet. Così come la stessa giustizia sociale può essere letta e ripensata

al di là della dialettica riformismo/rivoluzione. Per me, per noi, ripensare la

giustizia sociale oggi e quel che chiamo reddito di desiderio significa delineare




una nuovamisura delmondo e un’affermazione della vita, in tutte le sue nuances:

materiali, simboliche, psichiche, emotive.

Prima di sviluppare e sciogliere tutti questi nodi e prima di proporre la mia

tesi su come immaginare la giustizia sociale nell’economia politica contemporanea

e nell’antropologia neoliberale che ne deriva è indispensabile, tuttavia, ricostruire

molto sinteticamente il dibattito sul tema che ha attraversato e

attraversa il femminismo americano e italiano, almeno dagli anni ’90 in poi.

Nel 1990 usciva negli Stati Uniti il famoso testo di IrisMarion Young, Justice and

the politics of difference. L’autrice, nota esponente della teoria critica, sosteneva




la tesi secondo cui le teorie sulla giustizia formale e sostanziale, all’interno del

capitalismo, non potevano fare riferimento solo al paradigma distributivo e all’eguaglianza,

salvo cancellare il portato di dominio e oppressione esercitato

dal potere e dal capitale sulle differenze di genere, razza, classe, orientamento

sessuale. Secondo lei è impensabile “essere giusti” negando le differenze e la dimensione

sociale, sociologica direi, nelle quali sono immesse. Per potersi sentire

“riconosciuti” e per poter accedere al desiderio non è sufficiente avere dei

diritti sociali su base distributiva, ma occorre tirarsi fuori da ogni dinamica di

potere che domina e opprime le differenze stesse.

A distanza di qualche anno, nel 1997, un’altra esponente della teoria critica,

Nancy Fraser, interveniva contestando questa impostazione in Justice Interruptus.

Critical Reflections on the “Post-socialist” condition. Secondo lei la condizione




post-socialista favoriva l’idea secondo cui le lotte per il riconoscimento delle

differenze dislocavano la funzione originaria della giustizia sociale basata sul

paradigma distributivo andando a favorire un approccio “culturalista”. Quest’ultimo,

nel dibattito generale e nel femminismo in particolare, avallava la

cancellazione dell’economico dalle teorie e dalle pratiche politiche votate alla

giustizia sociale. Cosicchè Fraser proponeva di riconnettere il tema del riconoscimento

delle differenze al rilancio di una nuova idea di uguaglianza in grado

di riconoscere e redistribuire al contempo. Ancora più di recente, nel 2013, la

Fraser è tornata sull’argomento in Fortunes of Feminism. From State-Managed Capitalism

to Neoliberal Crisis, tradotto da poco anche in italiano. In quest’ultimo




testo, oltre a ribadire quanto già affermato precedentemente, teorizza la nozione

di “bidimensionalismo di genere” intendendo con ciò la sovrapposizione

tra classe (posizionamento economico) e status (posizionamento legato al sesso,

alla razza e all’orientamento sessuale) e la nozione di “giustizia di genere”, ovvero

la rimozione di tutti gli ostacoli economici, sociali e culturali, per favorire

una “parità di partecipazione” e una forma di indipendenza della “voice”. Una

giustizia basata sulla redistribuzione economica, sul riconoscimento delle differenze

e su una forma di rappresentanza più equilibrata.

Questo dibattito, tutto americano, pur trovandomi d’accordo sulla necessità di

reintrodurre la critica all’economia politica in ambito femminista,mi torna assai

poco su tutto il resto.

Intanto ritengo che l’androcentrismo delle società capitalistiche di cui parla Fraser

siamolto cambiato negli ultimi tempi. Personalmente ho sostenuto più volte

la tesi secondo cui oggi più che di patriarcato, dovremmo parlare di paternalismo,

ovvero di quell’insieme di procedure legate alla governance che tendono




ad includere, anziché escludere le differenze, per produrre plusvalore in un

quadro più generale di sfruttamento del paradigma della riproduzione sociale.

Penso, ad esempio, a tutti quegli indicatori statistici ed economici introdotti

nella “gestione delle risorse umane”, e promossi dalla scuola economica dimanagement

McKinsey, nonché in Italia dal Sole 24 Ore, ideati per calcolare l’aumento

della produzione del PIL o del fatturato delle multinazionali. Ricordo

che appena lanciato il “gay index”, inventato dal sociologo Richard Florida,

più di 600 multinazionali lo hanno utilizzando convinte che l’assunzione di

omosessuali avrebbe aumentato il loro fatturato. Oppure si pensi anche al successo

del Diversity Management, alla nozione di “bilinguismo di genere” da




sfruttare come “risorsa” nella gestione del capitale e vari altri dispositivi. Queste

procedure di “inclusione differenziale” non ci parlano solo di un “culturalismo”

professato da Young e criticato da Fraser, ormai del tuttomesso a valore

dal capitale, bensì di una forma di simbolico e di antropologia neoliberale tendenzialmente

votata all’antropofagia e all’eliminazione progressiva di tutte le

misure poste in essere dagli altri sistemi (giuridici, sociali ecc.) per arginare il

capitalismo o per governarlo. Dunque, direi, che la cosiddetta “giustizia di ge-
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nere” professata da Fraser, è già all’interno di questo meccanismo. Infine, il

grande equivoco di questo dibattito di matrice statunitense consiste, a mio avviso,

nel confondere la voice della differenza con le teorie sul riconoscimento.




E quindi, direte? Su quali basi pensare il reddito di base?

Nel 1987 un gruppo di femministe italiane della differenza pubblicava un testo

importantissimo, Non credere di avere dei diritti, nel quale a proposito della giustizia




e del diritto si sostenevano alcune tesi: il diritto è pensabile solo come traducibilità

e fonte dell’esistenza sociale; la giustizia può darsi tranquillamente

al di là della legge e del diritto attraverso la formula del giudizio politico sulle

ingiustizie; fare giustizia significa praticare, ognuna nel luogo in cui si trova,

un’idea di mondo giusto basato prevalentemente sull’esperienza, sulle relazioni

e sul desiderio.

E’ altresì evidente che nel capitalismo contemporaneo fondato sulla centralità

dello sfruttamento del paradigma riproduttivo e sull’antropologia neoliberale

non basta più solo riferirsi alle relazioni. Occorre rimettere al centro l’esperienza

materiale delle vite messe a valore, pensare lo stesso femminismo come

un pensiero per tutte e tutti, ripensare l’economia politica nonchè stabilire un

giudizio politico in grado di riattivare le lotte per la giustizia su base restitutiva.

La restituzione, però, non può più avvenire collocandosi come soggetti bisognosi

di diritti, secondo il paradigma del riconoscimento e della redistribuzione,

o come vittime,ma come resa dei processi di accumulazione capitalistica,

come restituzione di ciò che avremmo potuto avere e che invece ci è stato tolto

o addirittura messo a valore dal capitale. L’idea di una “giustizia restitutiva”,

dunque, dovrebbe collocarsi su un nuovo innesto tra simbolico e materialità

dell’esperienza. Cioè sul tenere insieme bisogni e desideri. Di qui quando penso

ad uno strumento come il reddito di base non posso dunque fare a meno di

collocarlo anche al di là della sua materialità monetizzabile. Se letto attraverso

la genealogia del dibattito femminista sulla giustizia sociale il reddito diventa

soprattutto uno strumento in grado di rilanciare anche e soprattutto il nostro

desiderio, ovvero quell’inquantificabile che ci da la possibilità di esprimere al

meglio le nostre passioni, i nostri talenti, le nostre aspirazioni. Una sorta di strumento

in grado di ricomporre la scissione dei soggetti messi al lavoro e di contenere,

limitare, lo strapotere delmercato sulle nostre vite e sulla nostra psiche.

In sintesi tornare a essere soggetti del desiderio, anziché solo oggetti, non più

contro il patriarcato, ma contro il paternalismo neoliberale.
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Donne più libere ed eguali con il reddito di base
di Elisabetta Ambrosi

La forza del reddito di cittadinanza sta nel suo carattere universalistico:




uno “zoccolo” di base per tutti, che sostenga chi non ha alcun reddito,

ma anche chi lavora e non guadagna abbastanza a causa di stipendi bassi

e ormai sempre più precari e saltuari. Non fa differenze tra giovani e anziani,

sposati e non sposati, maschi e femmine: il reddito di cittadinanza è per tutti,

il che significa che tutti possono contare su di esso come strada per tentare, ad

esempio, un cambio di lavoro senza finire nella povertà, o crescere dei figli riuscendo

a garantire loro una vita buona, con i giochi e gli strumenti di cui i bambini

hanno naturalmente bisogno.

Ma l’universalità del reddito di cittadinanza non gli impedisce di andare a colmare

alcuni divari specifici, cioè di intervenire laddove ci siano ingiustizie e

dislivelli profondi: ad esempio, ancora oggi, specialmente in Italia, quelli di genere,

tra uomo e donna. In questo senso, il reddito di cittadinanza si configura

come uno strumento formidabile per rendere le donne un po’ più uguali agli

uomini. E dunque più libere di fare scelte consone ai loro desideri e aspirazioni,

cosa che oggi non avviene, visto che le donne del nostro paese, come indicano

molte statistiche sulla felicità del genere femminile nei singoli paesi, sono tra le

ultime nella scala della soddisfazione delle singole vite.
Più precarie, e povere, fin da subito
Ma in che modo l’introduzione del reddito di cittadinanza aiuterebbe in maniera

specifica le donne ad esseremeno oppresse, a poter alzare gli occhi più in

alto di quanto oggi non facciano? Le diseguaglianze cominciano presto. Già

dopo la laurea, basta consultare i dati che Almalaurea produce ciclicamente, le

donne – che si laureano con voti più alti e in tempo più breve - guadagnano

molto meno degli uomini. E questo anche a parità di titolo di studio e di mansioni,

non tanto, dunque, perché tendano, tra l’altro oggi sempre meno, a scegliere

facoltà umanistiche invece che scientifiche. Non solo. La precarietà, che

oggi colpisce i giovani indistintamente, falcidia le donne in misura maggiore.

Sono loro a “scegliere” inmassa contratti part time, sono loro ad avere (anzi subire)

in maggioranza contratti atipici, ovvero flessibili senza alcuna tutela, fintamente

“family friendly”, quando in realtà le costringono a lavorare per cifre

miserevoli, nella maggior parte dei casi inferiori ai 10.000 euro l’anno. E senza
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poter godere di nessun ammortizzatore sociale nel caso debbano, per malattia

o altro, interrompere il lavoro per un periodo.

Già rispetto a questo quadro, è possibile intuire come un reddito di sostegno a

donne precarie con introiti così bassi permetterebbe loro, ad esempio, di poter

optare per percorsi di formazione che le portino a lavori maggiormente retribuiti;

o, semplicemente, poter fare una vita meno grama, e più libera. Essere,

anche, meno soggette alla dipendenza con il partner, che spesso le sostiene, e

meno soggette alla dipendenza con la famiglia di origine, che pure spesso le

sostiene, con tutti i significati che questa dipendenza comporta. Donne più libere

e meno soggiogate, dunque.
Maternità, l’urgenza di un reddito di base
C’è poi una fase ancor più delicata – la maternità - nella quale il reddito di cittadinanza

può rappresentare un’autentica svolta per le donne. Cosa succede

quando una donna che ha un lavoro precario - ormai si tratta della maggioranza,

visto che è la generazione degli anni Ottanta quella chiamata in causa

maggiormente, una generazione entrata dunque sulmercato del lavoro quando

quest’ultimo era già drammaticamente frammentato - resta incinta? Se il suo

contratto a termine scade, probabilmente si ritroverà senza alcun reddito; se

lavora con partita Iva, avrà un piccolo rimborso nei mesi di gravidanza. Ma il

peggio viene dopo. In un paese dove i servizi per la prima infanzia sono drammaticamente

carenti – vedi asili nido e sussidi familiari che permettano di fare

fronte alle spese – una parte di loro lascerà il lavoro, a causa del classico cul de

sac in cui donne con lavori precari finiscono: spendere più per i servizi di cura,




asili nido e tate, di quanto non si guadagni. Anche se queste donne spesso dimenticano

che comunque èmeglio restare nelmercato del lavoro piuttosto che

stare a casa, sarà difficile convincerle che il tempo passato in un ufficio a fare

mansioni ripetitive (l’altro aspetto che caratterizza il lavoro femminile in Italia

è il fatto che donne anche laureate vengono impiegate per qualifiche molto

basse) siamigliore che quello passato col proprio figlio. Altre tenteranno un’impossibile

conciliazione tra lavoro e famiglia, che trasforma la loro vita in una

routine schiacciante, nel tentativo affannato di far quadrare conti che non tornanomai

e con l’angoscia di non poter garantire ai propri figli un tenore di vita

accettabile. Quasi tutte continueranno a essere dipendenti dal proprio partner,

con tutte le conseguenze del caso. È dunque evidente come la possibilità di contare

su una base reddituale ad integrazione del proprio stipendio, o come piccolo

stipendio nonostante la scelta di essere casalinghe, le renderebbe meno

schiacciate, affannate. Ancora una volta, più libere, invece di prendere la mattina

i soldi lasciati sul tavolo dal proprio partner, che in qualche modo di questi

soldi poi, anche inconsciamente, gliene chiederà conto (magari obbligandola

a scelte simili più ai propri valori che ai suoi).
Una vecchiaia senza dover dipendere
E vogliamo parlare di cosa accadrebbe nel caso queste donne, con redditi quasi

sempre più bassi del compagno, si ritrovino separate? La loro esistenza si trasforma

quasi sempre in questo caso, purtroppo sono rari i casi di amorevole

accordo, in un inferno fatto di pressione, anche tramite avvocati sempre troppo

costosi, per farsi dare ciò che spetta loro, per sé e i propri figli. Rischiando tuttavia

di ritrovarsi povere, e di ricorrere di nuovo all’aiuto familiare, per chi ce

l’ha. Reddito di cittadinanza significa anche qui maggiore autonomia, possibilità

di sottrarsi alla povertà, e con sé anche i propri figli, perché aiutare le

madri significa sempre aiutare anche i bambini. Non si tratta dunque di soldi

dati per gratificare vacui desideri, ma di aiuti concretissimi per la sopravvivenza

propria e dei propri figli.

Resta infine un’ultima fase della vita nella quale le donne sono nettamente più

povere degli uomini. Ed è il momento della pensione. Purtroppo, a causa delle

ultime riforme pensionistiche e dell’introduzione di un contributivo secco,

senza correzioni, sia gli uomini che le donne si ritroveranno con pensioni minime

(un tema tragico che sembra non interessare affatto chi ci governa).Ma ancora

una volta a passarsela peggio saranno loro, le donne, a causa di carriere ancora più discontinue e stipendi ancora più bassi. Questo significa che, ne
caso non siano sposate, saranno nella povertà assoluta.
Mentre se sposate si ritroveranno,

ancora una volta nella loro esistenza, a dipendere dal partner. Dei

costi di questa dipendenza bisognerebbe parlare, in un paese sempre deficitario

di una visione liberale che concepisca le persone come singoli, individui la

cui dignità risiede proprio nella possibilità di autosostentarsi, anche senza il ricorso

a un marito o un padre. Tra l’altro, proprio quelle misure pensate all’interno

di una visione “familista” del welfare, come la pensione di reversibilità -

ad oggi le uniche forme di protezione di povertà - sono state messe vergognosamente

sotto attacco da chi non intende sostituirle con alcun reddito di base,

che permetta poi alla vedova di non sprofondare nella miseria. Ma se anche la

pensione di reversibilità dovesse restare così com’è è chiaro che solo l’introduzione

di un reddito di cittadinanza permetterebbe a donne senza reddito, o con

un reddito esiguo visto che anche queste pensioni sono state falcidiate dai tagli,

di vivere una vita dignitosa.

Perché proprio di questo si tratta: consentire ad uomini e donne di vivere

un’esistenzameno sotto ricatto,menomiserevole,meno disperata. Il reddito di

cittadinanza è l’unico strumento che consenta di raggiungere questo obiettivo.

Riuscendo al tempo stesso a rendere uomini e donne più eguali. E soprattutto

a far sì che queste ultime, in un paese ancora nascostamente cattocomunista

ma senza più alcuna protezione sociale né welfare solidaristico che quella visione

portava con sé, considerevolmente più libere. E molto meno infelici.
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Ni Una Menos. Un reddito di autodeterminazione




contro lo sfruttamento capitalistico e patriarcale
di Maria Rosaria Marella

Una donna ultraottantenne si lamenta di non aver avuto da quando si è




sposata, oltre 60 anni fa, un solo giorno in cui non ha dovuto cucinare,

riassettare la casa, rifare i letti, ecc. “Non ci sono ferie, Natali, Pasque e

compleanni per me. Non è giusto!” dice. E come darle torto? Ha lavorato tutta la

vita, ogni singolo giorno della sua esistenza da adulta, e la società l’ha apprezzata

sempre e solo come moglie di qualcuno. E mai l’ha remunerata per il suo lavoro.




Rimasta sola sarà ancora il legame familiare con l’uomo che ha sposato a garantirle

un reddito attraverso la pensione di reversibilità.

Una donna di mezza età rimpiange di aver scelto di stare a casa per crescere i

figli. Ora che sono grandi vorrebbe uscire dalla condizione di dipendenza dalmarito

(e dai genitori che ancora l’aiutano economicamente), avere un reddito suo,

la libertà di non dover giustificare come spende i soldi del mese, ma nonostante

la sua laurea, la possibilità di entrare ora nelmercato del lavoro è pari a zero. Perciò

continuerà tutta la vita a dipendere dalmarito così come è accaduto alla donna

ultraottantenne. E deve anche ritenersi fortunata: se la sua unione non fosse fondata

sul matrimonio, al momento dello scioglimento della coppia per lei sarebbero

guai seri. A questa donna dovremmo ricordare – non so neppure se a titolo

di consolazione - che se avesse lavorato nel mercato avrebbe comunque continuato

a lavorare anche in casa gratuitamente per i suoi familiari, perché, anche se

non lo si dice più apertamente, certe cose sono (continuano a essere) da donne.Ma

senza un reddito, quale che sia la sua età, 40, 50 anni, non c’è progettualità. Solo

la prospettiva di azioni ripetute ogni giorno, anno dopo anno, senza alcun riconoscimento

sociale.

Una giovane laureata tiene pulita la casa anche per i suoi conviventimaschi. Non

in base a un accordo. Semplicemente perché è così che poi vanno le cose. Se anche

lei lo fa notare e protesta, la condivisione del lavoro domestico non dura che pochi

giorni. Poi ricomincia la routine in cui si fa finta che l’appartamento si tenga pulito

e in ordine da solo. Il lavoro casalingo le sottrae tempo per il lavoro retribuito

part time che potrebbe svolgere mentre finisce la tesi di dottorato. No lavoro remunerato,

no reddito. E se decide di rivolgersi ad un aiuto pagato per guadagnare

un po’ di tempo e libertà, deve contribuire alla retribuzione della colf

insieme ai suoi conviventi. Pur prestando lavoro gratuito in loro favore quotidianamente.

Perché è lavoro invisibile, non-lavoro.

Come sarebbe la vita di queste donne se il loro impegno, la loro fatica quotidiana,

fisica e psicologica, fosse retribuita per quanto vale in termini di produzione sociale?

Tuttavia se ciascuna di queste donne rivendicasse nei confronti dei propri

familiari una retribuzione, nessun tribunale al mondo le darebbe ragione.

Perché il lavoro che presta è giustificato dal rapporto affettivo, più propriamente,

dalla solidarietà familiare, una nozione di solidarietà precisamente connotata

in senso politico e ideologico, saldamente iscritta com’è in un ordine

sociale che si vuole radicato nella separazione fra famiglia e mercato e nel paradigma

della famiglia nucleare. In base alla solidarietà familiare il lavoro domestico

e di cura è dunque ritenuto giustamente gratuito. Anzi, neppure

ascrivibile alla categoria Lavoro.

Hai voglia a dire queer: quando si tratta di lavoro domestico e di cura i generi




si ripresentano in forma smagliante e la fanno da padroni! Il regime, anche giuridico,

delle relazioni domestiche continua a fondarsi saldamente su una rigida

dicotomia produzione/riproduzione. E la riproduzione è faccenda femminile

- se non sempre e interamente nella sua diretta esecuzione, sicuramente nella

sua gestione, organizzazione e amministrazione. Chi dice che il patriarcato è

morto ignora questa diffusa realtà. Purtroppo, invece, il patriarcato è ben saldo

dentro l’istituzione famiglia, nella divisione sessuale del lavoro, quasi naturalmente

rafforzata e perpetuata nel modello della famiglia nucleare e procreativa.

E non aiuta in questo senso – sia detto per inciso - l’affannarsi di una parte

del movimento lgbt nel rivendicare accesso ad una istituzione modellata proprio

sul paradigma della famiglia nucleare e procreativa.

Il crittotipo patriarcale continuerà a regolare la famiglia, a dispetto della sua

celebrata, nuova veste egalitaria, almeno fintantoché il lavoro domestico non

sarà equamente distribuito fra i conviventi. E fintantoché non sarà riconosciuto

come lavoro produttivo e quindi retribuito.

Lo avevano capito molto bene già all’inizio degli anni Settanta le femministe

materialiste quando, rigettando la dicotomia produzione/riproduzione in

quanto ideologica e mistificatoria, denunciavano, in pieno furore lavorista da

boom economico, che per qualcuno, anzi per qualcuna, il lavoro non era, non

era mai stato, emancipatorio e soggettivante e dunque rivendicavano a compensazione

del lavoro domestico e di cura svolto in famiglia il salario per le casalinghe,

esempio‘storico’ di basic income che collocava il diritto al reddito




finalmente fuori dalla produzione e dal lavoro tradizionalmente intesi.

Oggi quella rivendicazione appare ancora sacrosanta pur davanti ad un radicale

rovesciamento di prospettiva: se negli anni ’70 si reclamava un reddito per

il lavoro domestico affermando che tutto è produzione, oggi nelle economie a

capitalismo avanzato tutto il lavoro sembra mimare piuttosto la riproduzione.

La gratuità del lavoro domestico, la sua immagine di non-lavoro, è diventata un

modello pervasivo nell’epoca del capitalismo cognitivo. Abbiamo assistito nel
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passato recente ad un fenomeno diffuso di femminilizzazione del lavoro, espressione




che gradualmente è andata indicando prima il massiccio ingresso delle

donne nel mercato del lavoro; poi, il cambio di natura del lavoro stesso, divenuto

maggiormente flessibile e meno tutelato sul modello dei lavori tradizionalmente

femminili; quindi l’estensione deimodi e dei tempi propri del lavoro

di cura - della sua componente affettiva, relazionale, emozionale, dell’impegno

tipicamente ‘senza orario’ - ben oltre la sfera domestica, ai molti lavori ‘immateriali’.

Da ultimo, l’estensione del carattere saliente del lavoro riproduttivo, la

gratuità, ad altre tipologie di attività lavorative, in particolare al lavoro giovanile.

Infatti, se da una parte la dicotomia produzione/riproduzione resta il baluardo

di un ordine sociale ancora pervaso da motivi patriarcali, il suo rigetto,

dall’altra, è fatto proprio dal capitalismomaturo che delmodello del non lavoro

fa ora un dispositivo con cuimettere all’opera le giovani generazioni sotto l’etichetta

della formazione.

Per altro verso, le politiche della World Bank nel sud del mondo, ancora giocando

fra produzione e riproduzione,mirano a realizzare l’emancipazione femminile

spingendo le donne a entrare nel mercato del lavoro e a farsi

imprenditrici attraverso gli strumenti del microcredito. È noto come l’ingresso

nella produzione non le abbia sollevate dal peso della riproduzione, come al

contrario queste politiche abbiano portato alla distruzione delle reti di solidarietà

sociale proprie delle economie tradizionali, con il risultato che la disuguaglianza

di genere e l’indigenza non sono diminuite e nuove forme di

sfruttamento si sono radicate.

Complessivamente il lavoro femminile si presenta a livello globale come avamposto

dello sfruttamento capitalistico e patriarcale.

In questo quadro il genere continua a funzionare ovunque come dispositivo di

assoggettamento, nel mentre alimenta apparati di governo delle forme di vita

che operano attraverso la frammentazione e l’individualizzazione delle soggettività

nelle mille identità destinatarie di politiche di pinkwashing, di diritti




umani elencati in innumerevoli convenzioni internazionali che restano del tutto

sganciate da misure di welfare e di solidarietà sociale.

Fra gli otto punti che in Italia “Non Una Di Meno” ha individuato come momenti

ineludibili della lotta delle donne contro la violenza di genere, con lo

sciopero internazionale dell’8 marzo 2017, c’è la rivendicazione di un reddito

di autodeterminazione. Per reclamare solidarietà sociale, non familiare! Un reddito

che sia garanzia di dignità, autonomia, libertà di scegliere. Contro la violenza,

che è anche violenza economica, determinata dalla divisione sessuale del

lavoro, dalla precarietà delle condizioni lavorative, dal misconoscimento del

peso sociale delle donne, del loro fondamentale contributo alla produzione sociale.

Non un sussidio, una graziosa concessione, ma la giusta remunerazione
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del valore prodotto. In una fase in cui alla capacità emancipatoria del lavoro salariato

credono ormai solo quei sindacati che rifiutano di fare del reddito universale

garantito la loro battaglia, le donne rivendicano il diritto a un reddito

di autodeterminazione e indicano così la strada giusta per sottrarsi allo sfruttamento

e a una violenza che è strutturale al sistema. Senza alcuna passione

identitaria, con la voglia, invece, di rivendicare la libertà dai generi per tutti e

tutte.Nella consapevolezza che più libertà, più democrazia, più giustizia sociale

possono guadagnarsi nel rispetto delle singole specificità solo dentro il rilancio

di un welfare universale.
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Le nostre vite valgono.
Qualcosamanca nel conto: il reddito di autodeterminazione
di Cristina Morini

La battaglia per il reddito di base va tenuta bene in evidenza in occasione




della giornata internazionale dimobilitazione delle donne, 8marzo 2017.

Le donne sanno meglio di chiunque altro che cosa significhi essere

escluse da criteri di valore imposti da strutture sociali e di pensiero governate

da uomini. Lo stesso concetto di “lavoro” è una costruzione maschile, frutto di

logiche sottostanti alla divisione sessuale del lavoro e al contratto sessuale

d’epoca moderna, funzionali a sancire che i compiti riproduttivi svolti tra le

mura domestiche - vale a dire il resto del lavoro, o meglio dell’operato dell’umanità,

cioè l’operato delle donne - non avevano alcun “valore”. Il “lavoro”

che le donne fanno per tutta la vita, nelle diverse fasi della vita, è fondamentale

per la sua sostenibilità ma non è mai stato remunerato. È interessante notare

come la società abbia puntato a introdurre forme di compensazione simbolica,

angelicando la figura dellamadre, cantando il lavoro di cura come sostenuto da

solo disinteresse e da puro amore. Ma, my friends, dietro c’è sempre stata una




fregatura: convincervi a portare avanti un compito complesso e faticoso che

non ha (ancora) sostituti dimercato in regime di assoluta gratuità.Non nego affatto

che le donne rappresentino, in questo, potenzialmente, un altro modello,

portatore di altri concetti di interrelazione e di altri indicatori di valore. Resta

tuttavia che, fuori da premi di consolazione etici e morali, l’economia da sempre

dimentica completamente il problema. L’identità è stata fortemente ancorata

al lavoro retribuito (un modello maschile) come, di conseguenza,

l’appartenenza alla “cittadinanza”.

Di questa lunga storia è necessario non dimenticarsi oggi. Oggi che è la concezione

stessa di salario, tradizionalmente intesa, a essere entrata in crisi. Il concetto




di salario ha espresso e sintetizzato l’integrazione tra modo pubblico e

mondo privato. Ma nel momento in cui i piani si fondono, nel momento in cui

la riproduzione diventa il baricentro stesso dei processi di valorizzazione cioè

nel momento in cui la produzione non ha più a che vedere (solo) con merci co-
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dificate, istituzionalizzate (visibili e tangibili) ma coincide con un’azione continua

e invisibile, cangiante e comune sulla realtà, diventa più complesso stabilire




che cosa è lavoro e chi lavora con relativa netta separazione tra gli attivi e

gli inattivi, cittadini o meno, tra coloro che lavorano regolarmente e coloro che

sono esclusi dal mercato del lavoro. La società salariale prevedeva un’occupazione

fissa,mansioni stabili, contratti di lavoro collettivi con orari di lavoro precisati

e minimi salariali prefissati. Tale società è in progressivo declino, con

fabbriche che chiudono omacchine (robot) che prendono il posto degli uomini.

Secondo le stime di due ricercatori di Oxford, Carl Benedikt Frey e Michael A.

Osborn, il 47 per cento dei posti di lavoro degli Stati Uniti sarebbe a rischio.

Cassieri, guide turistiche, conducenti di autobus, baristi, archivisti, arbitri sportivi,

assicuratori: in venti anni potrebbero non esistere più.

L’ingresso, davvero definitivo, nell’era precaria si fonda sull’indebolimento

delle regolazioni collettive e delle forme di protezione sociale assicurate dalla

condizione salariale che ha garantito fino a ieri soprattutto i maschi lavoratori.

È segnata dalla variabilità delle forme contrattuali, non ha riferimenti agli orari

di lavoro e soprattutto non ha minimi tabellari per i pagamenti, fino, appunto,

a generalizzare l’orizzonte del lavoro gratuito e della desalizzazione generalizzata.

L’organizzazione del lavoro, a questo stadio dello sviluppo del capitale, è imperniata

sulla precarietà esistenziale,mentre la riproduzione sociale (il complesso




delle interazioni e degli scambi che si generano, nel vivere, all’interno del tessuto

sociale; i processi cooperativi e di convivenza e di relazione facilitati da

tutte le piattaforme informatiche, da tutti i device che usiamo) è oggi esplicitamente




cuore (e non più la fase nascosta, rimossa, invisibilizzata, come segnalato

dal femminismo degli anni Settanta) dei processi di accumulazione. All’interno

di tutti questi nuovi processi ri-produttivi le donne hanno ruolo di non poco

conto, ma a questo punto non è interessante fare quote o distinguo: il punto è

riconoscere veramente, finalmente, a partire da una radice già nota, il valore

che viene prodotto da questa nuova forma di “lavoro” umano, ancora una volta

fino ad ora non riconosciuto.

Per questimotivi, la questione di una distribuzione adeguata alle nuove forme

della produttività sociale, diventa cogente, impellente. A partire dalla dimensione

sociale del lavoro che connota massimamente la nostra esperienza contemporanea,

si apre, insomma, il punto fondante della discussione attuale sul

reddito: è necessario spostare interamente il fuoco sulle forme di riappropria-
20
zione del valore prodotto nei processi diffusi e capillari della riproduzione sociale

attraverso un reddito di base incondizionato e il libero, e tendenzialmente




gratuito, accesso ai beni comuni, materiali e immateriali.

Si tratta di un passaggio nevralgico dell’intervento politico e le donne non debbono

perdere l’occasione di ricordarlo durante lemanifestazioni che l’8marzo,

soprattutto in Italia dove manca ancora una misura di questo tipo. Si tratta, in

sostanza, di riappropriarsi di se stesse, smontando quella rimodulazione delle




dinamiche di accumulazione capitalista che si appoggiano oggi sulla naturale

tendenza umana a cooperare. Così come la riproduzione domestica favorì l’accumulazione




originaria senza che venisse prevista alcun tipo di distribuzione,

l’accumulazione tecnologica è sospinta dalla riproduzione sociale e anche qui

non si vede ancora alcuna forma riconoscimento.

Il reddito di base può sostenere il soggetto contemporaneo nelle scelte e può

aiutarlo a fare resistenza a un modello che, complessivamente, lo aliena da sé

o lo costringe a subire varie forme di violenza, dalla violenza domestica alla

violenza economica. Vedo nel basic income incondizionato uno strumento per facilitare




contro-condotte che aiutino a recuperare proprio l’essenza della convivialità,

a ravvivare i desideri e ad attrarre le forze, sovvertendo, attraverso

pratiche che alludano al completo rinnovamento sociale, un destino disegnato

dal neoliberismo rispetto al quale, altrimenti, si rischia di rimanere impotenti.

La sua possibile introduzione viene ostacolata proprio perché un reddito di

base il più incondizionato possibile può essere strumento di autodeterminazione

e di autonomia di scelta e di vita, elementi centrali per le donne, aprendo

anche spazi per possibili forme di produzione e autorganizzazione, al di fuori

dell’ambito capitalistico. Uno strumento equo nell’emerge del problema della

povertà di chi sta nel lavoro e si misura con le sempre maggiori difficoltà connesse

allo smantellamento delle forme di assicurazione sociale, che può favorire

una riappropriazione democratica dei servizi collettivi del welfare e la

transizione verso un modello di sviluppo fondato sul primato del valore d’uso e




sulla riproduzione dell’umanità per l’umanità.

L’8 marzo in piazza rivendichiamo il fatto che le nostre vite valgono e che il sistema

lo sa bene, infatti sfrutta volentieri tutte le potenzialità dei nostri corpimente.

Perciò qualcosa manca nel conto: il reddito di autodeterminazione.
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Tra lavoro produttivo e riproduttivo, la necessità di un

reddito garantito
di Celeste Costantino

Lavoro domestico non retribuito, precarietà crescente, inadeguata conciliazione




dei tempi di vita e di lavoro, ricatto delle dimissioni in bianco, età

pensionabile sempre troppo alta, tetto di cristallo lontano dall’essere davvero

spezzato. Sono tantissime le difficoltà che toccano da vicino le vite lavorative

delle donne, in quel complesso via vai di esistenze tra lavoro fuori casa

e lavoro in ambito famigliare, tra desiderio dimaternità e necessità spesso di rimandare

la scelta alle calende greche.

Nonostante leggi e regole che sul piano formale riconoscono pari diritti, infatti,

nel lavoro sono le donne a dover sopportare maggiori sacrifici in termini di libertà

e di riconoscimento dei diritti e restano le donne i soggetti più vulnerabili

e ricattabili. Sul piano della competizione tra i singoli individui messi al

lavoro – donne e uomini – il post patriarcato neoliberista opera l’inclusione differenziale

di partenza a danno delle donne e le colpisce più duramente in un

gioco perverso creato dai dispositivi dimercato che alimentano processi di desoggettivazione

delle donne e di loro riduzione a mera risorsa del mercato.

Il fattore D come donna, esaltato da stampa e ambienti delmanagement aziendale,

ha significato soprattutto la sussunzione come regola del lavoro per tutte

e tutti dell’attitudine all’oblatività che le donne portano in dote dalla loro secolare

storia di lavoro di cura e accudimento della propria famiglia.

In questi anni il Parlamento italiano ha perso l’occasione per avviare una

grande riforma che eliminasse le contraddizioni e le diseguaglianze e, anzi, ha

avallato politiche di disconoscimento e svalorizzazione del lavoro femminile,

prevedendo l’innalzamento dell’età pensionabile alle donne, in seguito alla procedura

d’infrazione avviata dall’Unione europea nei confronti dell’Italia. Rispondendo

cioè con unamisura di uguaglianza puramente convenzionale in un

contesto, pubblico e familiare, che invece dovrebbe tenere conto delle enormi

differenze tra uomini e donne.

Il conflitto tra produzione e riproduzione che ha escluso per un lunghissimo periodo

le donne dalla sfera pubblica è accompagnato oggi da un’altra contraddizione

che non riguarda solo il processo di emancipazione femminile ma è
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anche il fulcro di quest’epoca che definiamo di “capitalismo cognitivo”. Capacità

di rapida comunicazione da parte dell’azienda, obbligo di disponibilità e reperibilità

assoluta, indistinzione tra tempi di vita-lavoro, flessibilità,

ricattabilità: sono queste le caratteristiche che si richiedono al lavoro “femminile”

incarnando il paradigma della precarietà. Il fenomeno della femminilizzazione

del lavoro non indica esclusivamente gli aspetti quantitativi

dell’ingresso delle donne nel mercato del lavoro – in certi casi massicci – ma

anche quelli qualitativi. Femminilizzazione del lavoro significa messa a valore

delle attitudini di disponibilità estrema che le donne sanno avere per l’accudimento

e la cura dei propri cari, di multiforme capacità di svolgere contemporaneamente

molte funzioni. Ci troviamo dinnanzi a un paradigma di

sfruttamento che si sta estendendo a tutti, donne e uomini.

Eppure questa femminilizzazione del lavoro non cancella la perdurante divisione

sessuale del lavoro nell’ambito domestico, dove sono ancora le donne a

farsi carico dellamaggior parte di incombenze e obblighi, né a cancellare lo stereotipo

secondo cui le donne sarebbero più adatte svolgere attività professionali

dove siano richieste qualità più vicine a quelle tipiche del lavoro di

cura, come appunto la disponibilità incondizionata. Una condizione di disponibilità

che viene considerata legata alla funzione riproduttiva, innata alla natura

dell’essere donna. Insomma siamo di fronte a una pesante eredità dei

dispositivi performativi e del simbolico del patriarcato che, sconfitto, ricompare

in nuove forme di patriarcalismi. La divisione per generi del lavoro domestico,

di cura e di accudimento, soprattutto in Italia, è praticamente rimasto

inalterato, ed è ancora di competenza delle donne, italiane o migranti.

Un lavoro indispensabile per la sopravvivenza del sistema produttivo, tanto

non raccontato quanto sommerso. Eppure non è ancora considerato un vero lavoro,

e viene ignorato nel calcolo del Pil, una misura che cancella le donne. Il

Pil è un indicatore economico inadeguato, perché in grado di misurare virtualmente

ogni tipologia di produzione umana in una determinata società, ma

nega ogni tipologia di rappresentazione al lavoro femminile e al contributo che

costituisce per la società.

I processi di emancipazione formale delle donne sul lavoro sono avvenuti senza

però quel salto qualitativo che avrebbe salvaguardato i loro diritti e le loro libertà

personali. Ci si ritrova oggi con la stragrande maggioranza delle donne

che sommano lavoro produttivo e quello riproduttivo, lavoro domestico di cura

e lavoro fuori casa, ritrovandosi più ricattabili e vulnerabili di fronte al datore

di lavoro e, in generale, nel sistema lavorativo. Paradigmatico in questo senso

è il ricatto sulla maternità, tanto che oggi fa notizia l’assunzione di una donna

incinta.
23
Così, nel non riconoscimento del lavoro domestico, il welfare si è adeguato all’organizzazione

sociale del lavoro ricavandone un netto risparmio e anche perpetuando

la divisione dei ruoli di genere.

Il fattore D ha insomma assunto il significato di innovazione e di risorsa per il

sistema economico. Il capitalismo in epoca neo-liberale e post patriarcale ha

mutato forma sfruttando i cambiamenti che le lotte femminili hanno prodotto

nella società – la loro irruzione nel mercato del lavoro e nella sfera pubblica –

rendendoli funzionali ai nuovi sistemi di potere del mercato.

La politica, di riflesso, ha continuato a misursi con le politiche di genere concependo

le donne come un soggetto debole da tutelare e rinunciando all’obbligo

di dar vita a una legislazione che mirasse alla parità di opportunità di

carriera tra i generi.

Per tutti questi motivi il dibattito sul welfare va fatto dando la giusta collocazione

del lavoro non pagato – quello domestico e di cura – dentro la divisione

del sistema economico, liberandolo da una responsabilità esclusivamente femminile

e rimettendolo all’interno dell’analisi della struttura economica nel suo

complesso: produrre e riprodurre, dove il riprodurre continua a essere essenziale

al produrre. La cura deve essere un principio di etica pubblica radicato

nella vita sociale e politica e non deve essere ridotto a valore privatizzabile o

esclusivamente di appannaggio delle donne. Deve entrare a stabilire il valore

del Pil come produttore di ricchezza e base per scelte politiche e legislative d

adozione del reddito di cittadinanza (reddito minimo garantito).

È in quest’ottica il reddito minimo garantito diventa una battaglia fondamentale.

A maggior ragione in questi giorni, in cui l’ex Presidente del Consiglio

Matteo Renzi lancia una proposta – già lanciata da Silvio Berlusconi qualche

giorno prima – del “lavoro di cittadinanza”, cioè una fonte di reddito per cui

le cittadine e i cittadini di questo Paese dovrebbero ancora dire grazie senza

avere diritto di scelta, non modificando e non scalfendo di una virgola il paradigma

economico.

Il redditominimo garantito, su cui in Parlamento esistono svariate proposte di

legge, rappresenterebbe per le donne l’alternativa a quel ricatto di fare di se

stesse una risorsa umana. Il ricatto che in questi anni, con l’Associazione daSud

(che valuta le ricadute favorevoli del reddito minimo anche come risorsa antimafia)

abbiamo chiamato del doppio sì: sì alla famiglia, sì al lavoro. Inoltre la

declinazione del reddito in un’ottica di genere non rappresenterebbe una battaglia

solo per le donne. Sì, partiamo dalle donne, dalle loro esperienze e dalle

loro elaborazioni ma per mettere al centro la vita umana e il valore di cura, da

cui il lavoro salariato dipende per produrre profitto, per opporre resistenza al
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fondamento di accumulazione capitalistica e di sfruttamento del nostro modello

economico e aprire spazi di nuova contrattazione. Adottare il reddito non

implica il rifiuto del lavoro, significa sostenere un nuovomodello di libertà, nel

campo dei diritti e nel campo della creatività, che coinvolga i modelli relazionali,

dentro e fuori le famiglie. Anche perché è emerso ormai in tutti i paesi industrializzati

che le forme di tutela contro la precarietà non abbattono la

capacità lavorativa, semmai il contrario.

Ma questa proposta va anche oltre. In anni in cui l’assenza massiccia di adeguate

politiche lavorative lascia tre generazioni senza lavoro, la politica dei

tweet e degli slogan ha invitato disoccupate e disoccupati a cogliere le opportunità

della crisi. Non si è fatto altro che parlare di start-up e coworking, come

se tutti avessero avuto la fortuna, o la voglia, o ancora il talento, per studiare e

“reinventarsi”. Questa non può essere la soluzione. Le Istituzioni hanno delle

responsabilità verso chiunque e a tutte e tutti va garantita l’opportunità di provvedere

a se stesso/a. Il reddito minimo garantito, può condurci verso un’altra

idea del lavoro e verso una concezione più ampia e universalistica di un reddito

di esistenza.

La piattaforma #nonunadimeno, la vera novità politica dell’autunno 2016, che

in Italia ha organizzato un’enorme manifestazione di donne e uomini in occasione

della giornata internazionale contro la violenza sulle donne, per l’8marzo

2017 ha assunto – nel suo appello allo sciopero di tutte le donne nelmondo dal

lavoro domestico e da quello professionale – la rivendicazione di un reddito di

autodeterminazione. Perché per primi i movimenti delle donne sono stati a

fianco di chi formulava l’esigenza del redditominimo garantito, avendo intuito

che a causa del loro ruolo di subalternità economica le donne fanno fatica ad

emanciparsi dalla violenza tra lemura domestiche. È ancora dalle donne e dalla

loro capacità di leggere il presente che passa il futuro del nostro Paese.
L’uguglianza è un trappola?
Lottare per il reddito garantito per rilanciare il femminismo
di Tiziana Assunta Orru

L’uguaglianza tra donne e uomini è un percorso in costante evoluzione,




ma nel tempo è mutato l’approccio: le differenze vengono considerate

sempre più ricchezza e le diverse strategie di intervento a favore della

parità sono attuate in interazione fra loro.

Il diritto antidiscriminatorio di nuova generazione rappresenta oggi l’attuazione

del principio di uguaglianza sostanziale sancito dall’art. 3, comma 2 della

Costituzione e trova ampi riscontri nella legislazione e nella giurisprudenza

comunitaria in tutti i settori del diritto, ma principalmente in ambito sociale e

lavorativo.

La disparità di genere è contraria alle ragioni sia dell’equità sia dell’efficienza

e non rappresenta più solo una questione di giustizia, ma soprattutto un problema

di crescita e di sviluppo, perchémortifica una piena valorizzazione della

persona umana anche quale fonte di benessere economico.

Nell’ordinamento giuridico europeo e nazionale, l’attenzione alla parità sul lavoro

è costante ed è consacrata in numerosi atti: dal Trattato di Roma istitutivo

della Comunità Economica Europea, alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione

Europea, con una evoluzione del concetto di parità da strumento di

contrasto alla concorrenza sleale -in una logica tipicamente mercantile- a elemento

che concorre al modello sociale europeo con attenzione al benessere individuale

e alla crescita economica e strutturale delmercato.Ma, per quanto si

siano ridotte globalmente le discriminazioni tra i sessi, il rapporto “Donne e

Lavoro” 2016 redatto nell’ambito dell’Iniziativa del Centenario dell’Organizzazione

internazionale del Lavoro (OIL/ILO), evidenzia la permanenza di un

forte divario di genere sia in termini di differenze occupazionali sia con riferimento

al cosiddetto “gender pay gap”(differenziale retributivo di genere).

L’incremento della partecipazione lavorativa femminile e il miglioramento

delle condizioni di lavoro delle donne, che oggi contribuiscono sempre più ai

bilanci familiari non hanno eliminato totalmente le asimmetrie tra i sessi.
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Le donne continuano a lavorare più ore al giorno rispetto agli uomini -sia nel

lavoro retribuito che nel lavoro non retribuito -dedicato principalmente alle

cure domestiche e parentali- e guadagnando in media meno degli uomini.

La quota sproporzionata del lavoro non retribuito limita la capacità delle donne

di aumentare il numero di ore impiegate in lavoro retribuito.

Di conseguenza, a livello mondiale, le donne - che rappresentano meno del 40

per cento dell’occupazione totale - costituiscono il 57 per cento dei lavoratori retribuiti

che lavorano meno ore ed in lavori a tempo parziale (fonte OIL/ILO

2016).

Le donne lavorano conmaggiore probabilità con contratti a tempo determinato

e/a tempo parziale (spesso perché non riescono a trovare lavorimigliori o sono

costrette a conciliare l‘attività produttiva con quella di cura familiare e a sopperire

alle carenze di servizi pubblici); i loro tempi di lavoro extradomestico

sono inferiori, svolgono in media mansioni meno qualificate e, anche a parità

di caratteristiche rilevabili, ricevono un salario orario significativamente inferiore.

Il divario retributivo di genere è un fenomeno complesso, imputabile a una

serie di fattori interconnessi e che riflette ampie disparità di genere ancora oggi

presenti nell’economia e nella società: discriminazioni sul posto di lavoro, differenze

di mansioni e di settori, pratiche lavorative e sistemi di retribuzione,

professionalità femminili spesso sottovalutate, poche donne ai posti di comando,

tradizione e ruoli di genere, esigenze conciliative di lavoro e famiglia.

Colmare il divario retributivo di genere significa superare i preconcetti di ruolo

in ambito scolastico, familiare, lavorativo e nel tessuto sociale e, in questi termini

l’U.E. si è costantemente impegnata nell’ambito della realizzazione degli

obiettivi della strategia di crescita dell’UE «Europa 2020».

Al ritmo attuale, secondo la ricerca Women in Work Index 2017, a cura di PwC

per l’Ocse, ci vorranno 95 anni per colmare il gender gap. L’attuale pay gap

medio tra i Paesi Ocse è del 16%. L’Italia vede un pay gap del 6,9% e si colloca




al 28° posto in classifica, non proprio ai primi posti.

Occorre modificare la strategia di intervento: la questione di genere, non può

porsi più tanto, o solo, nei consueti termini di tutela delle diversità, quanto in

termini di gestione delle stesse.

E la gestione delle diversità di genere si attua nel momento in cui l’attenzione

è rivolta alla valorizzazione di tutte le risorse umane, proprio in virtù delle differenze

che intercorrono tra gli uni e gli altri in funzione dell’ottimizzazione

delle loro potenzialità. Ciò in un’ottica di sistema che conduca ad esiti positivi

non solo in termini di impatto sullo stato dei diritti sostanziali, bensì anche sul

piano della crescita economica, sociale e culturale del Paese.

Non è la mancanza di lavoro che tiene fuori le donne dalla economia, ma al

contrario è la mancata partecipazione economica delle donne che impoverisce

il mercato e svigorisce l’economia, influenzando negativamente la crescita di

un Paese.

In questi termini ripensare lo stato sociale è un esempio di come le donne possano

essere parte della soluzione, anzi parte decisiva di una nuova visione di

crescita dell’economia e del mercato del lavoro che veda nell’eguaglianza di

genere un fattore propulsivo, non un costo, un’opportunità non una trappola.

Le donne sono una forma diwelfare gratuito. Cambiare lo status quo, fornendo

servizi accessibili e di qualità è fondamentale se si vuole incrementare la partecipazione

delle donne al mondo del lavoro. Ma non basta.

E’ senz’altro importante incrementare le misure che garantiscano il “worklife

balance”, inmodo da rendere conciliabili obblighi professionali e familiari: vedremo

che risultati porterà il Ddl per il lavoro agile o smart working “Misure




per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale emisure volte a favorire

l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato” attualmente

in sede di esame al Senato.

Ma soprattutto è fondamentale incoraggiare la partecipazione femminile al

mondo lavorativo attraverso incentivi di reddito che facciano diminuire il vantaggio

economico di stare a casa. Molte donne abbandonano il lavoro o non lo

cercano proprio per gli alti costi dei servizi sociali (asili, colf, badanti), nella

maggior parte dei casi superiori ai salari.

Un aumento delle retribuzioni medie delle donne, accompagnato da un correlativo

sgravio fiscale per non disincentivare l’occupazione femminile, favorirebbe

senz’altro l’occupazione e potrebbe innescare un meccanismo

moltiplicatore di risorse in termini di maggior gettito fiscale e contributivo che

potrebbe essere indirizzato al finanziamento di politiche a sostegno dell‘occupazione

femminile.

Si assisterebbe inoltre all‘aumento di una richiesta di prestazioni a sostegno

della famiglia, ma esterne ad essa, che darebbero impulso ad ulteriori ingressi

nell‘universo del lavoro nell‘ambito dei servizi alla persona, che come sappiamo

è prevalentemente femminile.

Ma la misura più incisiva sarebbe senz’altro l’attribuzione di un reddito so-
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ciale al di la delle sue possibili declinazioni (sociale/di base/garantito/di cittadinanza/

ecc), quale reale elemento di autodeterminazione per le donne e

quale unica misura in grado di redistribuire in maniera più giusta la ricchezza

prodotta da tutta la società attiva.

Il reddito universale cambia completamente i rapporti di forza nell’impresa

perché porta una forma di riconoscimento al lavoro che esiste fuori dal salario.

E’ un invito a sviluppare attività oltre l’impiego non un incentivo all’abbandono

del salario.Rilanciare il femminismo oggi significa lottare per il reddito e

non per il salario.

“Occorre che il lavoro perda la centralità nella coscienza, nel pensiero, nell’immaginazione

di tutti: bisogna imparare a guardarlo con occhi diversi, non pensarlo

più come qualcosa che si ha o che non si ha; ma come ciò che facciamo.

Bisogna osar volere riappropriarci del lavoro”. (André Gorz, Miserie del Presente

Ricchezza del possibile, Manifestolibri, 1998)





Libertà di essere o non essere madri.
Il reddito di base oltre gli strumenti di concilazione
di Elena Monticelli e Giovanna Campanella

Qualchemese fa la campagna comunicativa delMinistro della Salute Lorenzin,




che promuoveva il Fertility Day nel nostro Paese, ha sollevato

non poca indignazione e diverse proteste: una ragazza, ritratta con una

clessidra in mano, ricordava alle giovani donne italiane di non perdere tempo

ed assolvere al ruolo dimadri, al fine di non incorrere in problemi di infertilità.

Nella sua semplicità la campagna del Fertility Day raccontava meglio di molti

trattati la logica del neoliberismo: scaricare sulle spalle dei singoli responsabilità

che sono collettive. Da altro lato sembrava riproporre, non troppo velatamente,

un paradigma patriarcale che ricordava quello delle campagne fasciste

del secolo scorso: la donna deve assolvere al ruolo di madre anche per risollevare

le sorti del calo demografico italiano, quasi fosse un dovere nei confronti

del Paese.

Così pare non scontato, nel 2017, dover ribadire nuovamente che la maternità

debba essere una scelta libera per tutte le donne, e come l’autodeterminazione

femminile passi anche dalla libertà di scegliere di non essere madri. Al contempo

risulta fondamentale affermare la necessità di una genitorialità condivisa,

che non scarichi totalmente sulle donne il peso del lavoro di cura.

A partire da queste considerazioni è possibile svolgere un’analisi più approfondita

del rapporto causa-effetto che lega l’aumento della precarietà esistenziale

e la riduzione dei tassi di fecondità nel nostro Paese, quindi come la scelta

di fare un figlio o meno, dipenda sempre più da condizioni economiche, lavorative

e sociali e quindi non sia davvero una scelta libera, o alla portata di tutte

le donne.

I dati della fecondità, infatti,mostrano come le donne in Italia abbiano inmedia

1,4 figli, un tasso di fertilità tra i più bassi d’Europa ed inferiore a quello necessario

per il ricambio generazionale che è pari a 2,1 figli per donna, (donne

italiane hanno in media 1,3 figli, mentre le donne straniere residenti in Italia

hanno 2,0 figli), con una considerevole diminuzione rispetto al 2008(ISTAT

2014). Per quanto riguarda le divergenze territoriale, si registra un rovesciamento

della dinamica tra Nord e Sud del paese: le regioni più prolifiche, grazie

ai fenomeni migratori, sono infatti oggi quelle del Nord (1,5 figli) e del

Centro (1,4 figli), mentre nel Sud la media è di 1,3 figli per donna nel 2013.
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Una peculiarità che riguarda l’Italia rispetto al resto d’Europa, è questa scissione

è avvenuta principalmente a scapito delle giovani donne, che risultano

sovra rappresentate in tutte le forme di lavoro temporaneo (Saraceno 2005; Semenza

2004; Villa 2010, Fullin 2004; Deriu 2014), maggiormente presenti nelle

forme contrattuali meno tutelate e più discontinue, più povere (Esping-Andersen,

2005, 2009) e maggiormente a rischio di esclusione sociale. La flessibilità

introdotta, se da un lato le ha favorite per una partecipazione più attiva nel

mercato del lavoro dall’altro ne ha aggravato significativamente la loro condizione

dentro ilmercato del lavoro (Salmieri, 2006) obbligandole a fronteggiare

una precarietà lavorativa sempre più crescente (Fullin 2004, Deriu 2008) e costringendole

a rivedere e procrastinare le proprie scelte dimaternità e nuzialità

(Schizzerotto 2002, Saraceno, Naldini 2007). Questo è un aspetto che riguarda

nello specifico la vita lavorativa della donna e la sua crescita professionale e

che è correlata alle già tante disparità che la donna subisce all’interno del proprio

contesto lavorativo. In primo luogo, le donne riscontrano ancora vari ostacoli

sul versante del loro sviluppo professionale e di carriera, fronteggiando la

persistenza di una segregazione cosiddetta ‘orizzontale’ (concentrazione dell’occupazione

femminile in determinati settori) ed una ‘verticale’ (diversa posizione

degli uomini e delle donne nei livelli gerarchici di una professione)

(Salmieri, 2009). Non solo esistono ancora mestieri e settori occupazionali tipicamente

femminili, ma anche le opportunità di sviluppo professionale e le

condizioni di lavoro si differenziano sensibilmente in base al genere (Piccone

Stella, Viteritti, 2009). Il terzo aspetto che evidenzia ambiguità delmodello politico-

economico adottato, e che risulta conseguente ai due aspetti precedenti,

è relativo alla forte conflittualità creatasi tra professione, maternità e famiglia.




Anche questo aspetto rappresenta una peculiarità tutta italiana.

Le indagini EUROSTAT (2014) stimano che in Italia 2,3 milioni le donne risultano

inattive permotivi di famiglia, di queste il 40%ha un diploma di scuola

superiore o un titolo universitario e il 45% vive al sud. Si stima inoltre che

270.000 donne inattive non abbiano cercato lavoro a causa dell’inadeguatezza

dei servizi di cura forniti a bambini, anziani, malati e disabili e che il 18% delle

donne inattive lavorerebbe se i servizi fossero adeguati (Istat 2013). Per le donne

lavoratrici italiane la maternità rappresenta un forte rischio di fuoriuscita dal

mercato del lavoro. L’ISTAT, nell’indagine “Avere figli negli anni 2000” (2014),

ad esempio evidenzia con uno studio demografico sulle nascite e le condizioni

occupazionali dellemadri che il 22,4%dellemadri ha perso il lavoro (o lasciato)

dopo due anni dalla nascita del proprio figlio. Bassa partecipazione al mercato

del lavoro dunque e basso tasso di fecondità. Se infatti è chiaro che i comportamenti

e le scelte femminili rispetto all’occupazione hanno delle ripercussioni

sulle scelte riproduttive non è altrettanto evidente che tali scelte implichino una

diminuzione dei tassi di fecondità. Anzi, come evidenzia Adsera (2004), nel
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corso degli ultimi decenni il rapporto tra fecondità e partecipazione femminile

al mercato del lavoro europea registra una correlazione positiva al punto che i

paesi con i più alti tassi di fecondità sono oggi quelli scandinavi, gli stessi che

registrano la maggiore partecipazione femminile (Ahn e Mira 2002 ).

Se i dati relativi all’occupazione non restituiscono un quadro completo della

relazione fra precarietà esistenziale e riduzione della fecondità, risulta importante

analizzare anche altri dati, in particolare quelli relativi al tempo ed alla

conciliazione.

I dati sull’uso del tempo, infatti, rilevano che le donne Italiane (popolazione

over 15) dedicano al lavoro domestico e di cura non pagato circa 5 ore e 9 minuti

al giorno,a fronte di un impegno degli uomini paria 2 ore e 22 minuti

(ISTAT 2008); la media italiana è al di sopra della media dei paesi OCSE in cui

le donne passano 4 ore e 31 minuti del proprio tempo in attività di cura contro

le 2 ore e 17 minuti degli uomini. Le differenze sull’uso del tempo sono ben

rappresentate dall’indice Istat relativo all’asimmetria del lavoro familiare ,che

in Italia nel 2008-2009 è paria 71,9% per le coppie (ISTAT 2008).

Il tema della conciliazione tra lavoro e vita privata resta il discrimine in Italia,

ed incide in modo rilevante sul benessere della madri e delle loro famiglie. Secondo

la ricerca ISTAT “Avere figli in Italia negli anni 2000”(2014) , il 42,7% delle




mamme coinvolte nella ricerca ha dichiarato che ci sono aspetti del proprio lavoro

che rendono difficile la conciliazione. Gli aspetti del proprio lavoro che

sono ritenuti particolarmente problematici per le madri sono principalmente:

“l’orario di lavoro troppo lungo” (33,2%), “il lavoro a turni, pomeridiano o serale,

nel fine settimana” (22,8 %) e “la rigidità dell’orario di lavoro” (22,5%).

La conseguenza di questi problemi, pertanto, resta ancora per molte donne la

rinuncia al lavoro, (sotto forma di rinuncia dopo la maternità o di un ricorso al

part-time), o al ricorrere a lavori con contratti che permettano una maggiore

flessibilità negli orari e nell’organizzazione del tempo (Save the Children, Rapporto

Mamme 2016).

Per queste ragioni è importante mettere a fuoco la centralità del tema del modello

diwelfare adottato nel nostro Paese e del ruolo che potrebbe svolgere una

forma di reddito universale (come chiamato da alcune autrici “reddito di autodeterminazione”).

L’intensa letteratura sulla crisi del welfare e sugli effetti prodotti dalla flessibilità

in termini di instabilità, precarietà e insicurezza (Guy Standig, 2011, 2014; Gallino,




2007; Saraceno 2005, Fullin 2004,Naldini, Solera 2012) o più nello specifico

di “vulnerabilità sociale” (Ranci, 2008, 2010; Negri 2006, Naldini 2002) evidenziano




le profonde ambiguità connesse al modello politico-economico adottato.

Un primo aspetto, come evidenziato in gran parte della letteratura di stampo

lavorista, è la scissione delwelfare italiano in due parti: garantista (i) «per quella




32
parte di società ancora integrata in un sistema produttivo di tipo salariale»

(Ranci, 2002, pag. 253), residuale (ii) per tutti quei soggetti che vivendo in condizione




di discontinuità lavorativa e/o reddituale sono fuori dal sistema di protezione

pubblica. Il mancato investimento per politiche sociali ha infatti

sostanzialmente ridotto le possibilità di ottenere una copertura reddituale utile

a fronteggiare la condizione di disagio provocata dalla perdita di lavoro e l’assenza

quasi totale di investimento in spesa sociale rivolta a famiglie e al sostegno

ai figli. Unico sistema di “protezione sociale” per questi tipi di soggetti,

ovvero gli outsider del mercato del lavoro, è rappresentata dalla famiglia. In




particolare, in materia di politiche di conciliazione, l’Italia si è caratterizzata

per un approccio estremamente segmentato: i diversi c.d. bonus bebè, “bonus

mamma domani”, voucher baby sitting, voucher asili nido, non si sono rivelati

all’altezza del grosso problema di conciliazione tra i tempi di cura ed i tempi lavorativi.

Risulta evidente come il welfare italiano risenta della mancanza di un approccio

universale e di unamisura universale di sostegno al reddito. Il punto su cui

si intende concentrare maggiormente l’attenzione riguarda quei benefici che

deriverebbero da politiche volte ad accrescere (seppur relativamente) l’indipendenza

economica e la libertà di scelta delle donne. La carenza di reale autonomia

economica, che può derivare dalla perdita del lavoro a causa della

scelta della maternità, costituisce ancora oggi un problema che favorisce il ritorno

delle donne entro circuiti di dipendenza da strutture sociali tradizionali

in cui permane il principio secondo cui le donne debbono continuare a provvedere

alla cura di bambini o parenti anziani e malati. La condizione di precarietà

difficilmente consente loro la possibilità di operare scelte in totale

autonomia e facilmente ne condiziona l’esistenza e la durata. L’unica “sicurezza”

e rete di protezione sociale sembra essere talvolta, ancora come sempre,

la famiglia di origine e dunque il welfare familiare. Lungi dall’essere un problema

privato questo è un immenso problema sociale. Una siffatta situazione

limita infatti fortemente le possibilità di valutazione indipendente e lo spettro

delle possibilità della donna madre. In più di un caso le donne madri, pur restando

nelmondo lavoro nel caso in cui percepiscano un salario che non le consente

di crescere il figlio in autonomia, restano vincolate ai legami familiari. E

allora la famiglia, mantenendo pressoché inalterato il proprio ruolo di ammortizzatore

sociale, continua a vincolare la libertà di scelta delle donne. Le

tensioni collegate alle problematiche economiche hanno influenza tutt’altro che

remota anche su fenomeni come la violenza in famiglia.

E’ evidente che anche misure come il neo Rei (Reddito di Inclusione) non possano

assolvere al compito di liberare le donne dai vincoli familiari, nel momento

in cui vengono erogate su base familiare. La titolarità individuale del
33
reddito è una caratteristica imprescindibile affinché si possa passare dall’assistenzialismo

all’autodeterminazione.

Per tali ragioni una misura di reddito erogata su base individuale, di importo

adeguato, slegato da criteri di condizionalità, rappresenterebbe un punto di avanzamento

per il nostro sistema di welfare, un reddito come remunerazione di tutto

il lavoro non certificato che oggi fuoriesce dalla categoria troppo stretta di lavoro

per la produzione, pur generando, esattamente come è stato (e continua ad essere)

per il lavoro domestico, grande valore in termini economici, sociali e in termini

di senso (Morini, 2015).
34
Reddito minimo garantito come strumento per

diminuire le disuguaglianze di genere
di Annamaria Vitelli

In una società evoluta l’individuo “donna” come sottocategoria dell’individuo




umano non avrà più cittadinanza. Del pari, non vi saranno più distinzioni

in base al sesso e/o al genere dei soggetti agenti nella collettività, ma

ciascuno avrà un proprio riconoscimento connaturato alla sua natura di essere

umano.

Quel giorno – nella speranza non resti unamera aspirazione utopica - non sarà

più necessario approntare politiche specifiche a tutela delle donne, così come,

per altri aspetti, di coloro che vengono stigmatizzati in ragione del proprio

orientamento sessuale, in piena attuazione del principio costituzionale (art. 3

comma 1) della parità di genere, già previsto da un allora illuminato legislatore

nel 1948 : <Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla





legge, senza distinzione di sesso ……..>
Fino ad allora, e dovendo fare i conti con la contingente realtà, le continue notizie

che ci giungono dai media, suffragate dall’elaborazione scientifica/statistica

dei dati, ci forniscono un quadro piuttosto fosco della contemporaneità.

Ovvero, appare obiettivamente esservi una discrasia tra i livelli di reddito da

lavoro di uomini e donne attivi, ridotti i secondi mediamente di un terzo rispetto

ai primi e che si riverberano nella fase di quiescenza, con trattamenti

pensionistici risibili per la platea femminile. Ancor più la forbice delle disuguaglianze

tra i sessi si ampia laddove si prenda a riferimento il livello di occupazione,

di gran lunga inferiore per le donne rispetto ai coetanei uomini.

Non pare casuale che ad una tale divergenza monetaria e/o mancata autosufficienza

economica corrisponda anche un’ altrettanto divergente incidenza in

termini di considerazione sociale tra i due sessi, con tutto ciò che ne consegue

anche in termini di dipendenza femminile nei confronti dei partners e fino ai

casi estremi di incapacità e/o estrema difficoltà di ribellarsi a situazioni di violenza

psichica e fisica. Le ragioni sono profonde ed ataviche, dettate da immotivati

pregiudizi, retaggi di una cultura patriarcale, forse mai pienamente
35

36
superate ed avverso i quali si possono, anzi si debbono approntare nuovi strumenti

operativi. Tra questi, un nuovo approccio solutivo potrebbe consistere in

uno specifico sostegno al reddito femminile,maggiormente incidente in favore

delle donne, in quanto inversamente proporzionale alla capienzamonetaria del

percettore, in un‘ottica di livellamento, quantomeno nel minimo, tra i redditi

percepiti dai due sessi.

Tale misura attuerebbe il principio costituzionale delle politiche attive volte a

rendere effettivo il principio di uguaglianza tra i generi, quale strumento adottato

per intervenire sulle condizioni di partenza per livellare le divergenze realizzando

un riallineamento delle condizioni economiche di uomini e donne, se

non altro nel livello minimo di reddito garantito indistintamente ad ambo i

sessi. Detto intervento troverebbe un supporto legislativo direttamente nella

nostra Magna Carta (art. 3, comma 2) laddove si legge : <E` compito della Repubblica





rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la

libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana

e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e

sociale del Paese>.
L’autonomia dell’individuo passa anche attraverso l’autonomia reddituale e

nessuna donna sarà mai libera nelle proprie scelte, fintanto ché sarà assoggettata

economicamente al partner e/o subordinata al medesimo a causa di un

suo minor apporto economico.L’obiettivo ultimo è la parità di reddito tra i generi

quale strumento per realizzare una parità tra i sessi di più ampio respiro.

Ma per raggiungerla il cammino appare ancora lungo ed irto di ostacoli. Il redditominimo

garantito, può svolgere un apporto notevole a tale conquista, nella

misura in cui la sua dazione venga legata in via egualitaria ed universale, a prescindere

dal sesso del soggetto ricevente, esclusivamente in misura inversamente

proporzionale al livello di capienza economica del percettore. Avere a

propria disposizione un quantitativo monetario di cui disporre, anche a prescindere

dalla propria attività produttiva e/o semmai a sua integrazione consente

a ciascuno di noi (donne e uomini) di essere liberi nelle proprie scelte di

lavoro e di vita, non essendo costretti ad acconsentire a condizioni indecorose

datoriali e del pari nella sfera privata senza sentirsi soggetti all’altrui arbitrio.

L’autonomia economica – e quindi anche l’apporto che a questa contribuisce un

sostegno al reddito- costituisce una spinta da non sottovalutare nel trovare la

forza di ribellarci e/o di riprenderci il nostro corpo, il nostro tempo, il nostro

spazio, in una parola per far sì che il nostro presente e il nostro futuro dipenda

esclusivamente da noi.
8 marzo per il reddito di autodeterminazione
di Maria Pia Pizzolante

Un 8 marzo 2017 atteso e internazionale. Un 8 marzo fondamentale per




uscire dalle secche di dibattiti chiusi nei confini nazionali. Le donne

scioperano in oltre 40 paesi nel mondo. Le donne scendono in piazza,

costruiscono parole d’ordine e mobilitazione attorno ai nodi irrisolti della contemporaneità.

Le disuguaglianze e la violenza, fenomeni spesso intrecciati, origine

dimolte delle rivendicazioni di questo 8marzo. A partire dalla piattaforma

italiana del movimento “non una di meno”, 8 punti formulati nei tavoli di una

affollatissima assemblea nazionale a Bologna. Tra i punti della piattaforma il

reddito di autodeterminazione, uno strumento che parla al nodo fondamentale

del lavoro e del welfare ma anche alla liberazione dai ricatti che la precarietà

esistenziale ha diffuso, ma che le donne spesso hanno conosciuto prima,

proprio a partire dalla loro esperienza di genere. Il lavoro che manca, il lavoro

che quando c’è non ha salari dignitosi, richiede una disponibilità di tempo assoluta,

spesso diventa una prestazione gratuita, il ricatto dovuto all’assenza di

qualsiasi protezione sociale, il ricatto familiare, l’impossibilità di scegliere e determinarsi

appunto. Non più e non solo dunque uno strumento di lotta alla povertà,

ma un modo per rendere protagoniste indipendenti della loro vita tutte

coloro che vivono situazioni di violenza domestica che sappiamo essere purtroppo

un fenomeno ancora troppo diffuso. I numeri sono noti, un po’meno lo

sono le misure volte ad arginare questi fenomeni, anche perché spesso si fa

davvero poco. Siamo ancora in attesa di una legge sull’educazione sentimentale,

abbiamo ancora troppo poche risorse per centri antiviolenza, case delle

donne, asili nido e l’elenco potrebbe continuare. Ma l’assenza più grave è proprio

quella di un reddito minimo garantito in questo Paese.

Proprio in questi giorni è in discussione al Senato un provvedimento che viene

erroneamente accostato ad un reddito di inclusione sociale. Si tratta in realtà di

pochi fondi messi al servizio di situazioni familiari particolarmente difficoltose.

Famiglie numerose che vivono sotto la soglia di povertà, a cui per l’accesso

a questo reddito di ultima istanza viene fatto obbligo di eseguire lavori
37
socialmente utili, anche questi ancora oscuri.Ma oggi, per questo 8marzo, non

è tanto delle tecnicalità della legge che è utile parlare, quanto dei punti fondamentali

che fanno la differenza tra un reddito di autodeterminazione e unamisura

a tal punto vincolante da divenire una trappola paragonabile alla sua totale

assenza. Le donne lo sanno. Serve una misura che liberi, dalla precarietà, dall’ansia

quotidiana, dal lavoro degradante e mobbizzato, ma anche dalle famiglie.

Laddove esse spesso non garantiscono, in particolare le donne, nella libera

espressione dei loro desideri e potenzialità. E non serve obbligare a lavori, che

invece di stimolare, aiutare a crescere, formare una persona, la costringono a faticare

per pochi spicci e forse anche per ciò che non produce, non arricchisce,

non forma. Ancora una volta, pensate alle donne, ai lavori domestici, alla cura

degli altri, bambini o anziani che siano. Per quanto saranno ancora considerati

non lavori, da non retribuire e dunque da relegare a chi permantenere gli equilibri

familiari rinuncia a lavorare. Eppure nel mondo si parla di automazione,

di pari distribuzione dei lavori domestici, di congedi genitoriali paritari. Eppure

avendo bisogno tanto più di cura delle persone che di fabbriche inquinanti,

forse dovremmo cogliere l’occasione per creare lavoro buono e parimenti

retribuito. In barba al gender pay gap. Eppure, qui in Italia, nell’anno domini




2017, rischiamo la classica montagna che partorisce il topolino. Dopo tante discussioni,

dopo proposte di legge avanzate sul redditominimo garantito, tra cui

quella di iniziativa popolare per cui tante donne si sono spese, forse allo sciopero

delle donne la politica risponderà con una generica misura contro la povertà.

Non solo troppo poco, ma anche troppo rischioso. Siamo sicuri che in

quelle famiglie che beneficeranno del reddito di inclusione, che in quei lavori

socialmente utili non si annidino forme più insidiose di sfruttamento? No.

Siamo consapevoli che il maggior numero di violenze contro le donne si manifestano

nelle famiglie? Allora perché non dar vita ad unamisura individuale?

Questo non aiuterebbe solo le donne a liberarsi, ma qualunque soggetto costretto

a vivere una subalternità che da economica diventa sociale rispetto alla

propria famiglia. Pensiamo ad un ragazzo in difficoltà nel fare coming out prima




a casa che fuori. Pensiamo a chi vorrebbe studiarema per le esigenze di una famiglia

in rosso non può che andare a cercare lavori sottopagati, in nero, senza

sicurezza. Pensiamo a chimagari vorrebbe investire su un’idea, su una capacità,

su se stesso e ci rinuncia perché le misure pensate per la famiglia impongono

una serie di obblighi. Appunto, le donne lo sanno, abbiamo bisogno di un reddito

per l’autodeterminazione, non di uno strumento qualunque pensato male

e realizzato peggio. Abbiamo bisogno che le offerte di lavoro a cui si è sottoposti
38
abbiano una qualche attinenza con le proprie aspettative, tendenze, competenze.

Perché il senso di colpa che ci hanno voluto imporre, quell’idea patriarcale

e fatta di dominio e possesso per cui se “non ce la fai”, se non reggi le

condizioni che la società ti impone, è colpa tua, sono appunto gli alleati più affidabili

della conservazione dello status quo, del mantenimento di un esercito

di sfruttati e sfruttate “disposti/e a tutto”.

Per questo e con rinnovata convinzione l’8marzo scioperiamo. Perché se le nostre

vite non valgono, non produciamo, incrociamo le braccia e scendiamo in

piazza. A Roma, ci vediamo davanti al Colosseo alle 17.
39
Lottomarzo. Sciopero generale delle donne e reddito di

autodeterminazione
di Melania Mieli
Premessa

Non una diMeno è unmovimento promosso da Dire (Donne in rete contro




la violenza), Udi (Unione Donne Italia) e rete romana IO Decido

che si batte contro la violenza maschile sulle donne. A questa rete

hanno aderito centinaia di associazioni, collettivi e singole che hanno portato

alla manifestazione di piazza del 26 novembre partecipata da oltre 250 mila

persone. La violenza maschile sulle donne non è un fatto privato, non è

un’emergenza ma un fenomeno strutturale e trasversale della nostra società e

per tale ragione si sta elaborando un Piano Femminista contro la violenza alle

donne da presentare alle istituzioni articolato su 8 punti sviluppati da altrettanti

Tavoli di lavoro.

Un tema importante affrontato dal Tavolo “Lavoro e accesso al welfare” è relativo

al reddito di autoderminazione. Si riportano gli stralci dei report che sintetizzano

i contenuti delle due assemblee nazionali svoltesi il 27 novembre a

Roma e il 4-5 febbraio a Bologna:
“Alla precarizzazione e all’intermittenza del lavoro vogliamo rispondere con una completa

riconfigurazione del welfare che introduca un reddito di autodeterminazione nelle

sue forme dirette e indirette, come reale possibilità di fuoriuscita e liberazione da ogni

meccanismo di dipendenza. Così come alla disparità salariale e ai meccanismi di dumping

rispondiamo con la rivendicazione di un salario minimo a livello europeo.” Report




tavolo Lavoro e welfare (Assemblea Nazionale 27novembre a Roma)
“La proposta di un reddito di autodeterminazione, sostenuta da più parti, indica una

possibilità concreta di sottrarsi al ricatto e allo sfruttamento della precarietà, come pure

all’obbligo di accettare qualunque condizione lavorativa e salariale.” Report del tavolo




Lavoro e welfare (Assemblea Nazionale 4- 5 febbraio 2017 a Bologna)

Al fine di continuare a portare avanti questa lotta, il movimento “Non una di

meno” ha aderito e rilanciato lo sciopero globale delle donne: l’8 marzo si incroceranno

le braccia interrompendo ogni attività produttiva (lavoro propriamente

detto) e riproduttiva (lavoro di cura, domestico, informale, con bambini,
40
anziani, parenti,etc.) con astensione dal consumo e dall’uso dell’energia elettrica

per gli elettrodomestici. Lo sciopero, dunque, è lo strumento che il movimento

femminista in atto ha scelto e che si darà contemporaneamente in 40

paesi del mondo, perché la violenza di genere non si combatte con l’inasprimento

delle pene, ma con una trasformazione radicale della società e delle relazioni,

delle condizioni di vita e di lavoro.
Reddito di autodeterminazione e femminismo
Con questo articolo si vuole sintetizzare le speranze e sviscerare i punti di una

proposta che abbia a oggetto l’assunzione del reddito di autodeterminazione (di

seguito anche “RDA”) come nodo politico sostenuto dal movimento femminista.

Sottolineo che le riflessioni di seguito riportate sono frutto del mio pensiero

come singola partecipante al Tavolo “Lavoro e accesso al welfare” e non rappresento

con completezza la complessità dei punti di vista che compongono

Non una di meno.

Le ragioni per cui ritengo che l’introduzione di un reddito di autodeterminazione

debba essere da noi femministe sostenuta con forza sono di seguito sintetizzate:
Reddito di autodeterminazione e indipendenza

Già nel 1897 Emma Goldman1 scriveva: «Io chiedo l’indipendenza della donna,




il suo diritto dimantenere se stessa, di vivere per se stessa, di amare chi e quanti

vuole. Chiedo libertà per entrambi i sessi, libertà di azione, libertà nell’amore

e nella maternità».

Condivido in pieno le parole dell’“anarcofemminista”, in particolare laddove

afferma che «l’indipendenza femminile dovrà prendere le mosse da una rigenerazione

interiore, da una trasformazione del modo di pensare e dell’assetto

sociale che liberi la donna dalla costrizione del domino che l’uomo esercita in

ogni aspetto della sua vita: sui bisogni materiali, sui corpi, sulla mente e sulla

condotta2».




Per talemotivo, il primo argomento che utilizzo a sostegno della tesi per cui noi

femministe dovremmo abbracciare il RDA scaturisce proprio da una considerazione

di questo tipo, ossia da una valutazione di principio, ma contestualmente

vicina alla dimensione meramente pratica e concreta dell’esistenza: il

RDA migliorerà la condizione di noi donne proprio dal punto di vista dell’indipendenza,

dello stile e del tenore di vita.

Con un’entrata sufficiente per le necessità della vita, infatti, le donne avranno

una maggiore flessibilità in termini di partecipazione al mercato del lavoro e
41
più potere contrattuale all’interno della struttura familiare tradizionale. Inoltre,

poiché il RDA è incondizionato e individualizzato, non vincola le donne a una

particolare struttura della famiglia, né a un lavoro retribuito. Questo rappresenta

un miglioramento rispetto all’attuale sistema salariale, che è spesso fortemente

condizionato ed esigente.
Reddito di base e mercato del lavoro
Per liberarci dall’asservimento economico del lavoro domestico, abbiamo cercato

il lavoro remunerato, quello che potesse garantirci l’indipendenza economica.

Rivendico allora con convinzione la battaglia combattuta dal movimento femminista

che ha l’obiettivo di dare pari opportunità alle donne che entrano nei

modelli lavorativi; così come ritengo necessario fare seguito ai risultati sin qui

ottenuti, come la promozione dell’occupazione a tempo pieno e l’approvazione

di leggi anti discriminazione. Passaggi certamente importanti per la nostra

causa, ma che non costituiscono il nostro vero traguardo.

Se l’obiettivo di rendere paritaria l’esperienza lavorativa viene perseguito da

solo, rischia di creare uno scenario piuttosto pericoloso, soprattutto nel contesto

attuale in cui il mondo del lavoro non è più così promettente, assoggettato

alla crescente tendenza verso la bassa retribuzione, il precariato e la sostituzione

del lavoro umano con quello robotizzato.

I lineamenti salariali, le regole e le forme che costituiscono i rapporti di lavoro,

soprattutto oggi, ci parlano dello svantaggio sofferto dalle donne. Il ricatto del

bisogno e del salario sono impedimenti di sistema, storicamente determinati,

che non ci consentono di riuscire a rintracciare la liberazione nel lavoro. Per

poter parlare di liberazione femminile occorre liberarsi da questi vincoli.

Il RDA può essere utile a questo scopo e può dare un significato vero e tangibile

alla soggettività e autonomia decisionale, può diventare un fattore di inclusione

sociale per quelle donne che hanno problemi dimarginalità, un fattore

di riproposizione del conflitto per quelle donne che subiscono le contraddizioni

del sistema e le sue forme di sfruttamento. Il RDA permetterebbe di vivere nel

lavoro, se così si vuole, o non lavorare affatto. O lavorare meno. E diversamente.

Tengo a sottolineare che, con ciò, non sto riecheggiando un ritorno a casa o rivendicando

l’immagine della donna-madre intenta a cullare bambini;ma sto invitando

tutte,me per prima, a imparare ad affermare la nostra identità di donne

non per forza attraverso le gerarchiemaschili del lavoro deimaschi e attraverso

le regole del potere economico stabilite dall’uomo per potenziare se stesso attraverso

i suoi ben noti valori auto-affermativi.
42
Reddito di base e segregazione del mercacto del lavoro
Per molti secoli, le donne non hanno conosciuto il lavoro capitalistico remunerato

ma solo il lavoro domestico gratuito al servizio dell’istituzione famiglia.

Nonostante l’attuale impegno da parte di alcuni uomini a condividere di più il

lavoro casalingo rispetto al passato, tale processo nel nostro Paese è lento e ancora

assai limitato, così che il grosso del lavoro di cura resta sulle spalle delle

donne senza che sia retribuito (a titolo di esempio, basti considerare la quantità

dimansioni presenti in un elenco pur semplificativo e per nulla esaustivo come

quello che segue, e che comprende: cucina, pulizia, spesa, lavanderia, manutenzione

della casa, riparazioni emiglioramenti, educazione dei figli, cura dell’altro

e costruzione di relazioni che rendono la vita degna di essere vissuta).

Ciò, inutile dirloma utile ricordarlo, rende le donne più vulnerabili da un punto

di vista economico.

La vulnerabilità economica delle donne è più evidente quando esse si trovano

fuori da contesti famigliari canonici, e spesso è più acuta tra le madri single di

bambini piccoli, le quali si trovano a dover scegliere tra la cura per i loro figli e

un lavoro retribuito. Il risultato, troppo spesso, è la povertà di tempo unitamente

alla povertà di reddito.

L’introduzione di un RDA ha la potenziale capacità di ridurre la divisione sessuale

del lavoro in quanto eleva lo status del lavoro non salariato e incoraggia

gli stessi uomini a sceglierlo in luogo di una condizione lavorativa non soddisfacente

e frustrante.

Nelle società altamentemonetizzate come la nostra, il reddito è potere: ne consegue

che la sua mancanza colpisce una persona in qualsivoglia aspetto della

sua vita – da quello materiale a quello fisico, da quello psicologico a quello sociale.

Ogni reale progresso verso l’uguaglianza di genere non può esulare – anzi, richiede

– l’esistenza di un reddito autonomo che consenta alle donne di avere

un peso maggiore nella definizione del loro futuro, sia a livello domestico sia

a livello sociale più ampio.
Reddito di base e industria 4.0
Il 21 settembre 2016 è stato presentato aMilano il PianoNazionale Industria 4.0,

ossia la risposta italiana alla “quarta rivoluzione industriale”. Successiva infatti

alle tre precedenti3, la nuova rivoluzione comporterà rapide trasformazioni




nella progettazione, nella produzione, nel funzionamento e nella

manutenzione dei sistemi produttivi e dei prodotti, con cambiamenti significativi

nella vita delle persone in tutto il mondo.

La strategia adottata dalMinistero dello Sviluppo Economico prevede delle direttrici

di accompagnamento rivolte alla implementazione delle infrastrutture
43
abilitanti e agli strumenti di finanziamento pubblico atti a supportare le imprese

che vorranno investire in innovazione e competenze.Manca tuttavia una

visione più completa circa le modalità con le quali sarà necessario ridistribuire

la ricchezza e sanare la povertà generata in questa nuova fase storica.

Non viene in sostanza affrontato il tema del rischio – argomento che all’estero

ha coinvolto invece una platea varia di esperti, da accademici a società di consulenza

– di abitare unmondo in cui i robot causeranno tassi di disoccupazione




insostenibili e senza precedenti nella storia umana, distruggendo senza sconti

i lavori ripetitivi e manuali così come le professioni tecniche e intellettuali.

Sebbene sia difficile fare almomento una stima precisa di tale rischio, sappiamo

che circa il 48% degli esperti del settore prevede che entro l’anno 2025 le macchine

avranno monopolizzato un numero significativo di occupazioni a discapito

di intere masse di individui di fatto non più impiegabili, comportando un

forte aumento delle disuguaglianze di reddito e rotture nell’ordine sociale. L’altro

52%, al contrario, ritiene che la tecnologia creerà tanti posti di lavoro quanti

ne distruggerà4. Tale seconda opinione si fonda tuttavia sull’assunto che la comunità




di riferimento abbia sviluppato competenze digitali diffuse a ogni strato

sociale entro i prossimi 3 decenni, il che richiede già dal tempo presente programmi

ministeriali e finanziamenti efficaci ed efficienti.

Così come è accaduto per la crisi finanziaria iniziata nel 2008, le donne rischiano

di divenire le principali “vittime” di unmercato del lavoro sempre più esigente

ed elitario.

In questo conteso, il reddito di autodeterminazione apre l’accesso agli strumenti

di sicurezza sociale a prescindere dal possesso di un contratto di lavoro

e permette di affrontare la relazione con le nuove tecnologie non più nella prospettiva

di un belligerante aut-aut (in cui unamacchinami ruba il lavoro!) bensì

di una condizione collaborativa e costruttiva (in cui unamacchinami consente

di guadagnare di più lavorando di meno). La sfida va colta con tempestività

adesso che siamo forti abbastanza per contrattare unamisura che sovverta l’ordine

costituito con un occhio chirurgicamente attento alle esigenze specifiche

di noi donne. Arrivare tardi all’appuntamento con l’innovazione tecnologica

ci costringerà a elemosinare briciole di social security quando le nostre voci saranno

coperte da quelle di altrettanti attori sociali che reclameranno sostegno

pubblico.
Reddito di autodeterminazione e maternità
Il concetto di maternità qui discusso non si riferisce all’esperienza privata del

generare figli all’interno di una coppia, bensì alla condizione politica del corpo

di una donna che pretende che i diritti su cui si fonda la comunità nella quale

vive non siano tagliati sul modello di cittadino neutro, maschio, eterosessuale,

lavoratore a tempo pieno. La maternità è un’esperienza che necessariamente
44
interrompe il legame di disponibilità che caratterizza un rapporto di lavoro,

che entra in conflitto con le regole e i tempi del mercato, con logiche e priorità

diverse da quelle richieste nel mondo del lavoro (un corpo che impone il suo

malessere, un figlio che fa saltare l’ordine della giornata e pertanto l’organizzazione

del lavoro). Ed è in questi termini che diventa un fattore di esclusione

sociale: l’alternativa per le donne è così sospesa tra il diventare come gli uomini,

e cancellare quindi l’esperienza della maternità con una sorta di rimozione,

e il decidere di non privarsene ma con la consapevolezza di essere per

questo svalorizzate, in quanto non pienamente aderenti alla richiesta di performance




proveniente dal mercato.

Per scardinare questa ingiustizia, che in un colpo solo colpisce (punisce, mortifica)

il nostro essere donne nella sua doppia matrice naturale e culturale, abbiamo

bisogno di rivendicare diritti che aprano spazi per tutti, a partire dalla

nostra voce autorevole di individui che in questo sistema attuale vivono una cittadinanza

incompiuta.

Come espresso da Angela Lamboglia, Federica Castelli, Teresa Di Martino e

Roberta Paoletti nel documento Diritto universale alla maternità come orizzonte in

cui pensare il reddito: «[…] pensare al diritto universale allamaternità come orizzonte




in cui sviluppare una misura di reddito, che le femministe hanno non a

caso definito reddito di autodeterminazione, andrebbe davvero a colpire il paradigma

capitalista, che rimuove o sovraespone il “soggetto imprevisto”. Perché

intendere lamaternità non (solo) comemettere almondo un figlio,ma come

trasformare il mondo, avere un modo altro di pensarlo, prendersene cura significa

cominciare a costruire una cittadinanza che parta dai bisogni e dalle

esperienze del quotidiano e non dalle neutre astrazioni di cui si nutrono le politiche

che subiamo sulla nostra pelle5».





Reddito di autodeterminazione e violenza sulle donne
L’Associazione Nazionale D.i.Re “Donne in Rete contro la violenza” (la prima

associazione italiana a carattere nazionale di centri antiviolenza non istituzionali

e gestiti da associazioni di donne che affronta il tema della violenza maschile

sulle donne secondo l’ottica della differenza di genere) ha pubblicato i

dati sulla violenza di genere relativi all’intera popolazione sul territorio italiano,

con ultimo aggiornamento all’anno 2014. Da tale indagine emerge che il

32,2% delle donne che si sono rivolte ai Centri antiviolenza hanno subito violenza

economica, registrando un dato in aumento di quasi il 2% rispetto all’anno

precedente.

Per violenza economica si intende controllo o privazione del salario, impegni

economici imposti, abbandono economico. Su quest’ultima tipologia, il reddito

di autodeterminazione può essere risolutivo, mentre per le altre accezioni sarà
45
necessario affiancare all’introduzione dello stesso delle misure a supporto che

impediscano che l’azione violenta possa riversarsi sull’entrata economica.
Reddito di autodeterminazione e prostituzione
Il reddito di autodeterminazione si configura come un tramite privilegiato di

lotta concreta allo sfruttamento del corpo delle donne da parte degli uomini in

quanto cancella la condizione di indigenza dalla quale nasce la decisione dolorosa

di intraprendere una simile professione. Riconoscendo un reddito che

garantisce un livello di vita dignitoso, si cancellano le opzioni drammatiche che

gli esseri umani sono costretti a prendere in considerazione quando devono

occuparsi della propria sussistenza e di quella dei propri cari.

Noi donne, più di chiunque altro, abbiamo storicamente pagato un prezzo altissimo

per garantire cura e vita a noi stesse e a chi amiamo. È tempo di strutturare

un modello sociale che non ci metta mai più in condizione di dover

ripetere tali scelte.

Con l’auspicio, espressamente dichiarato, di riuscire a giocare un ruolo come

voce unica del movimento femminista nei dibattiti sociali e politici.
Bibliografia

Fonti primarie (articoli, documenti, monografie):

B. Bianchi, Il pensiero anarcofemminista di Emma Goldman, Prefazione al volume E. Goldman,

Femminismo e anarchia, BFS Edizioni, Pisa 2009, pp. 5-24.

F. Chiusi, L’era dei robot e la fine del lavoro: un bene o un male per l’umanità? (http://storie.




valigiablu.it/robot-e-lavoro/).

J. Danaher, Feminism and the Basic Income (Part One)




(http://ieet.org/index.php/IEET/more/danaher20140717).

S. Ficocelli, Schiave, costrette o libere prostitute le tante anime del sesso a pagamento, in “Le




inchieste di Repubblica”, 7 marzo 2013 (http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/

rep-it/2013/03/07/news/ traffico_della_prostituzione-54053158/).

S. Gobetti, Un reddito garantito ci vuole. Ma che reddito garantito ci vuole? Breve storia dei

percorsi per un reddito garantito in Italia degli ultimi anni e le proposte in campo, in “Quaderni




Europei sul NuovoWelfare”, Quaderno n. 26, 19 marzo 2016.

A. Lamboglia, F. Castelli, T. Di Martino, R. Paoletti, Diritto universale alla maternità

come orizzonte in cui pensare il reddito. Documento presentato il 20 ottobre 2015 al First




Meeting for a Basic IncomeWG presso la sede del Parlamento Europeo.

S. Moatti, Intervista con Jean-Marie Harribey e Carlo Vercellone. Reddito di cittadinanza:

quale spazio per il lavoro?, in “Euro Nomade” del 3 agosto 2015 (http://www.euronomade.




info/?p=5339).






C. Morini, Alla ricerca della libertà: donne e reddito di cittadinanza (http://www.binitalia.




org/alla-ricerca-della-liberta-donne-e-reddito-di-cittadinanza/).

Id., Il valore dell’infedeltà. Prolegomeni per una lettura pop (e femminista) della necessità del

reddito di esistenza (http://www.bin-italia.org/il-valore-dell%C2%92infedelta-prolegomeni-




per-una-lettura-pop-e-femminista-della-necessita-del-reddito-di-esistenza/).

Id., La sicurezza delle donne sta nel reddito (http://www.bin-italia.org/la-sicurezza-delledonne-

sta-nel-reddito/).

S. Regehr, Basic Income and Gender Equality: Reflections on the Potential for Good Policy in

Canada. Documento presentato al Basic Income Earth Network (BIEN) Congress, Montreal,




QC, 2014.

Fonti secondarie (link utili):

http://basicincome.org
http://www.bin-italia.org/

http://www.direcontrolaviolenza.it/dati/
http://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/BRIE/2015/568337/EPRS_BRI(2015

)568337_EN.pdf
http://www.lavoce.info/archives/42196/42196
http://www.sviluppoeconomico.gov.it/images/stories/documenti/Industria_40%20_c

onferenza_21_9
Note

1 Emma Goldman (Kovno, 29 giugno 1869 – Toronto, 14 maggio 1940) fu un’anarchica,




femminista, saggista e filosofa statunitense di origine russo-lituana, che svolse un importante

compito nella diffusione del pensiero anarchico classico in Europa e Nord America.

2 Tratto da Il pensiero anarcofemminista di Emma Goldman, Prefazione di Bruna Bianchi al

volume E. Goldman, Femminismo e anarchia, BFS Edizioni, Pisa 2009, pp. 5-24.

3 In rapida sintesi, l’epoca storica e le relative innovazioni delle rivoluzioni possono essere




così riassunte:

Prima rivoluzione industriale – seconda metà del XVIII secolo – Introduzione di potenza

vapore per il funzionamento degli stabilimenti produttivi;

Seconda rivoluzione industriale – fine XIX secolo – Introduzione dell’elettricità, dei prodotti

chimici e del petrolio;

Terza rivoluzione industriale – primi anni Settanta del XX secolo – Utilizzo dell’elettronica

e dell’IT per automatizzare ulteriormente la produzione.

4 Fonte: sondaggio del Centro di ricerca Pew (think tank statunitense con sede a Washington)




pubblicato ad agosto 2014 con numerosità di quasi duemila esperti.

5 Dal documento eponimo presentato il 20 ottobre 2015 all’incontro “First Meeting for a




Basic IncomeWG” presso la sede del Parlamento Europeo.

Hanno scritto in questo numero:

Elisabetta Ambrosi, giornalista , è stata caporedattrice della rivista di politica




Reset , ha lavorato all’ufficio stampa della Commissione di inchiesta della Camera

dei deputati sugli errori sanitar, ha scritto, insieme ad Alessandro Rosina,

"Non è un paese per giovani. L'anomalia italiana, una generazione senza voce"

(Marsilio, 2009).

Giovanna Campanella, ricercatrice in Sociologia dei processi economici e del




lavoro presso l'Università degli Studi Guglielmo Marconi. I suoi principali interessi

di studio vertono su: precarietà e politiche di sostegno al reddito, reddito

di base, occupazione giovanile e orientamento al lavoro.

Celeste Costantino, attivista politica, ha fatto parte del comitato politico nazionale




di Rifondazione Comunista, consigliera per le Pari Opportunità del Comune

di Reggio Calabria, membro dell’Assemblea Nazionale di Sinistra

Ecologia e Libertà, deputata al Parlamento italiano e membro della Commissione

Cultura della Camera dei Deputati.

Maria Rosaria Marella è ordinaria di diritto privato nell’Università di Perugia.




È fra le socie fondatrici dell’associazione femminista GIUdIT (Giuriste d’Italia).

Lavora sui temi della famiglia, del femminismo giuridico, della proprietà

, dei beni comuni e dello spazio urbano. È socia del BIN Italia e al tema del reddito

garantito ha dedicato numerosi articoli e interventi. Fra le sue ultime pubblicazioni

“Di cosa parliamo quando parliamo di famiglia” (Laterza, 2014, con

G. Marini) e “Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni”

(ombre corte, 2012).

Melania Mieli, è lo pseudonimo di una scrittrice italiana nata nel 1983. Il Tredicesimo

Periodo, uscito per Lettere Animate, è la sua opera d’esordio. Il Piano dei

Conti è il suo secondo romanzo pubblicato dalla casa editrice Milena Edizioni.




Autrice di articoli sul tema del reddito e le questioni di genere.

Elena Monticelli, dottoranda in Diritto Pubblico dell’Economia presso l’Università




Sapienza di Roma. Scrive da diversi anni sui temi del reddito minimo

in Italia per Sbilanciamoci.info e Bin Italia.

CristinaMorini, giornalista e ricercatrice, autrice di saggi e inchieste sulle trasformazioni




del lavoro, il reddito garantito e le questioni di genere. Autrice di

numerosi articoli pubblicati su riviste nazionali e internazionali. Socia fondatrice

del BIN Italia. Redattrice del sito Effimera.


Tiziana Assunta Orru, giudicie del lavoro in Roma.

Maria Pia Pizzolante, attivista politica, autrice di articoli sul tema del lavoro e




del redidto garantito, impegnata per l'istituzione del redditominimo garantito

attivista di movimenti ed iniziative per un altro modello di welfare e di politiche

di genere, portavoce della rete nazionale TILT. portavoce nazionale associazione

Tilt!

Anna Simone è ricercatrice (TD) in sociologia giuridica presso il Dipartimento




di Scienze Politiche dell’Università di Roma 3. Ha insegnato per anni discipline

sociologiche presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli ed èmembro

di IAPH(Associazione internazionale delle donne filosofe) presso cui cura l’atelier

sul femminismo giuridico. Co-dirige assieme a Federica Giardini e altre il

Master in Studi e Politiche di Genere presso l’Università di Roma 3. Ha inoltre

pubblicatomolti lavori e tenutomolte conferenze in Italia e all’estero. Tra i suoi

libri più importanti: Divenire Sans Papiers (2002); Lessico di biopolitica (2006); I

corpi del reato (2010); Sessismo democratico (2012); Suicidi (2014); I Talenti delle

donne (2014); Fare Giustizia (2016); Rappresentare il diritto e la giustizia nella modernità




(2016).

Annamaria Vitelli, avvocato civilista e lavorista in Roma




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Finito di stampare Marzo 2017 per

Associazione Basic Income Network Italia

Tipografia Bellini Via Tito Speri, 2 Roma